Maturare una posizione davanti alla realtà della fine, ha significato per me mettere a confronto la consapevolezza dei valori che determinano la mia esistenza, la mia stessa persona, con le situazioni estreme e ricorrenti, che caratterizzano e accomunano le esperienze dell'accompagnamento. Ancora oggi significa collocare nel mondo della mia normalità quotidiana ed applicare a me l'esperienza vissuta dal mio malato, del "qui e adesso", dell'imminente e del già accaduto, dell'attesa sopraffatta dal silenzio e dalla immobilità del dopo. Questo percorso si affianca alle parole della scienza ed è, a mio avviso, un cammino importante, cui può seguire una risposta a volte non formulata, ma concretamente vissuta, perché questo procedere modella la vita.
Scaturisce un nuovo modo di essere, di accostarsi alle persone e ai fatti; un modo non secondario di parlare al malato della sua morte, di rispondere forse a una domanda sottesa, che non trova la forza di emergere. Il modo personale di condividere l'attesa diventa colloquio, testimonianza semplice di speranza, forse parole che consola.
Qualcuno mi chiede "...cosa vai a dire a un malato terminale ?". Non so, ma spero che anche la mia sola presenza sia un dire.
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