Chi accompagna un malato terminale è consapevole fin dal primo incontro, che il suo amico malato lo lascerà presto. Questa certezza affievolisce, a volte scredita ai suoi occhi, il significato della speranza che perdura malgrado tutto, nei suoi familiari, e verso la quale a volte può sembrare bene opporre una certa resistenza per rendere meno doloroso l'impatto con la realtà finale. Per "familiare" intendo la persona che ha un rapporto personale profondo col paziente.
Non escludere l'eventualità di notizie di segno positivo, pur se poco probabili o addirittura inverosimili, manifesta un atteggiamento naturale, un sogno e un riposo, che non esimono tuttavia dalla consapevolezza del presente come esso concretamente si propone e lascia ragionevolmente prevedere. Ma il dolore a volte offusca l'evidenza, e la speranza sembra diventare semplice sostegno psicologico, è l'attesa di poter traghettare dal desiderio alla realtà ciò che si vorrebbe: la guarigione della persona cara. Attesa sempre delusa nell'accompagnamento: l'ineluttabilità dell'evento e la sua importanza spingono il volontario a considerare questa "fiducia" un'illusione temporanea, un problema marginale, "...Spera sempre, ma non c'è più niente da fare!", come dire "Questa speranza non ha senso." Sono molteplici le ragioni della speranza, e spesso coesistono: la paura fisica della morte, il timore di vedere compromessa una situazione nelle sue prospettive economiche, familiari, di vita quotidiana, ma su tutte quasi sempre prevale l'amore.
Si tratta di argomento poco dibattuto tra i volontari, e io stesso soltanto ora me ne occupo con impegno, dopo alcuni accompagnamenti che hanno particolarmente sollecitato la mia riflessione.
E' davvero senza significato la speranza dei familiari, davvero un'assurdità? Non dico qui la speranza che appartiene alla Fede, ma quella che incontro comunemente, di veder guarire il malato.
Forse ha un suo messaggio, un valore proprio, a prescindere dalla sua fondatezza. Alcuni comportamenti, alcune parole mi suggeriscono che, anche se priva di prospettive ragionevoli, nessuna speranza è "disperata", nessuna priva di senso.
Preme sul familiare il tempo della clessidra, ora più incline a dirgli quanto manca, e in questa attesa che si va esaurendo c'è l'apprensione, l'urgenza del poco che resta, si condensa tutto il vissuto, i vincoli, le gioie, i progetti...in questo terreno ha radice l'assurdo della speranza. Con voce ferma o con parole appena sussurrate o vissuta nel silenzio, anche se a tratti alterna ad una visione chiara dei fatti, la speranza è frutto di un amore grande che nulla può disarmare, a dispetto di ciò che sta per accadere. E' il bisogno di confermare a sé stesso questo amore, l'ansia di testimoniarlo a tutti, forse è annuncio di quello che non verrà meno dopo la morte del malato. Allora la speranza illumina il dolore, anche degli altri.
Come porsi davanti alla speranza dei familiari? Non si tratta di un "problema marginale", è cosa importante. Abbandono i toni presuntuosi di una visione superiore delle cose, la sufficienza distaccata dell'ovvietà. Nessuna astrazione speculativa sulla "speranza", ma l'ascolto dell'uomo e della donna che sperano, di quell'uomo e di quella donna nella presa di coscienza e nell'intensità del loro vissuto.
Le parole di chi spera chiedono ogni volta l'impegno del discernimento; a volte la comprensione e l'apprezzamento del senso nascosto che lasciano intuire. Accettare la morte del malato è un atteggiamento positivo che presuppone un cammino faticoso per i familiari; aiutarli a riconsiderare la loro speranza è un atto di amore che esige dal volontario, lungo il tempo dell'accompagnamento, una seria, costante attenzione alle persone, la condivisione solidale della loro sofferenza e al tempo stesso un particolare sforzo di obiettività, una partecipazione responsabile, coraggiosa e prudente. Alla fine, l'amore della speranza ormai svanita può fondersi con il dolore del distacco.
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