L'aspetto è provato, ma sorride accennando un saluto. Anch'io le sorrido, "Non ti do la mano, è gelata. Si sta bene in casa". Anche col marito niente "come va", lo sguardo è domanda e risposta, e dice la nostra amicizia; in cucina ricevo le poche "consegne", poi Giovanni esce.
Mi siedo accanto al letto. Ogni tanto Attilia beve un po' di aranciata, a sorsi dal cucchiaino. Appena un velo di apprensione sul volto, però c'è posto anche per qualche sorriso; parole poche e lente, per ognuna una piccola riserva di fiato, allora gli sguardi tentano di soccorrere la sua fatica, lo sforzo di una frase che stenta a uscire.
"Devo dirti una cosa. Personale"
"Sono qui, se ti fa piacere possiamo parlarne subito, altrimenti quando ti sentirai"
"Aspettiamo dopo"
Qualche intercalare semplice, a volte ironico, è molto bello che abbia il senso dell'umorismo; un sorso, una pausa di silenzio e si appisola. Apre gli occhi. "Devo dirti una cosa", è la frase che ascolto da giorni, sempre troppo lunga per essere pronunciata d'un fiato.
"Ti ascolto volentieri", ma mi rendo conto che devo aiutarla.
Procedo a tentoni, rileggo mentalmente gli argomenti più significativi dei nostri colloqui, le impressioni precedenti. Le chiedo se si riferisce al '68 che insieme al marito aveva vissuto in modo entusiasta ma, in certo senso anche traumatico.
Accosto l'orecchio alla sua bocca: "No" poi sussurra "la comunità". Giovanni mi aveva parlato di qualche incomprensione sorta all'interno della parrocchia che frequentavano. Un contrasto non risolto, il rifiuto, poi la separazione, non importa quanto né da chi voluta, certamente sofferta. Così tento qualche parola, con cautela, con un po' di timore e la speranza di indovinare.
"Attilia anche se in una comunità abbiamo contestato le strutture, le istituzioni, intendevamo solamente contestare gli uomini, i loro metodi; questo non significa aver rifiutato chi sa sopra di tutti". Un giro di parole, ma non volevo forzare un colloquio ancora incerto. Osservo la sua espressione, lei mi segue attenta con gli occhi e annuisce, parlo lentamente, le pause consuete.
"Stai tranquilla, in pace. Forse, in certe situazioni sentiamo il bisogno di fare un bilancio generale della vita", l'assenso si fa vivace.."non capita soltanto a chi è malato, è normale nei momenti o nelle situazioni che riteniamo importanti, del resto anche chi è anziano come sono io (sorride) più si inoltra negli anni e più frequente ne avverte il bisogno. Forse può diventare un confronto sereno, non so quanto valga la mia esperienza. Io ho l'impressione che quando si ripensa la vita, le cose fatte buone o cattive, importanti o secondarie, perdano importanza, le senti quasi lontane, mentre acquista valore il ben che hai dentro, che sei tu adesso, in questo momento, per te e per gli altri, le scelte spirituali che compi".
La vedo annuire di continuo. "A me sembra così: il bilancio della vita è il bene che siamo diventati, il nostro desiderio di un bene ancora più grande che vorremmo essere e dare agli altri, anche se non ne siamo capaci: anche se è tanto grande che, pur desiderandolo non riusciamo neppure a contenerlo".
(Continua)
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