Svolgo attività di volontariato inserito in una Unità di Cure Palliative Domiciliari. I rapporti con i colleghi, con gli infermieri e coi medici, vissuti in un normale clima di serenità, sono improntati ad un forte impegno nella professione e nella responsabilità personale. Questo atteggiamento presuppone la conoscenza delle mansioni proprie ed altrui, quindi la capacità di individuare e rispettare gli spazi professionali e di volontariato: anche su queste realtà si fondano la stima e la libertà di instaurare tra noi un colloquio aperto e sincero.
Mi chiedo quanta difficoltà possa suscitare in un infermiere professionista, al suo ingresso nelle U.C.P.D., l'idea di collaborare con una persona del tutto estranea alla cultura medica. I volontari infatti provengono da attività professionali e livelli culturali differenziati lontani dal "mondo della sanità, pur avendo frequentato un corso di informazione sulle problematiche del malato oncologico e della sua famiglia. Perplessità ancor più plausibile in un contesto sociale che riserva sempre maggior apprezzamento alla specializzazione.
Queste osservazioni mi invitano a intrattenere gli infermieri sul "volontariato" e tentare alcune puntualizzazioni.
La specifico della professione infermieristica si manifesta in tutta la sua evidenza negli atti e nei rapporti col malato di chiara natura paramedica: difficile invece individuare la natura e il limite dell'attività svolta dal volontario, attività non professionale, che si esplica in un contesto semplicemente umano.
Sappiamo che il rapporto col malato è innanzi tutto rapporto con una"persona" e come si possa venire coinvolti oltre la sfera professionale: in tale rapporto confluiscono l'accompagnamento da parte del volontario e l'assistenza propria dell'infermiere, impegnati l'uno e l'altro a mettere a fuoco l'ambito delle rispettive competenze.
In questo consistono la forza e la fragilità della nostra collaborazione, la cui qualità non può essere priva di effetti per il malato. Il rapporto umano col paziente non può che essere mantenuto, ma è necessario individuarne le prospettive.
Il volontario a contatto col malato ha il solo scopo di aprirsi alla relazione umana nella modalità che il malato stesso vorrà instaurare, negli ambiti e nel tempo a lui graditi, con il bagaglio spirituale, culturale e psicologico che ognuno porta con sé, senza imporlo e senza rinunciarvi.
Nel periodo iniziale l'approccio può trovare sbocco in attività di aiuto materiale, concreto: porgere al malato il bicchiere, aiutarlo a trovare una nuova postura, ricordargli l'assunzione di una medicina, contattare con urgenza l'infermiere per l'insorgere improvviso di un aggravamento. Ma la malattia, nel suo stesso aggravarsi, non è l'unico motivo di inquietudine per il malato, e col tempo il colloquio che il volontario intesse con " l'uomo" colpito da malattia (non col malato in quanto tale), può inoltrarsi in ambiti personali di vita vissuta, di ricordi, di spiritualità, di dubbi e speranze; il malato può conoscere il riposo che suscita la comprensione condivisa nel silenzio.
( segue )
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