martedì 19 aprile 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (37° di Q. di L.)

Al volontario non piace pensare in astratto il malato terminale, quasi fosse una categoria. Il suo malato ha quel volto, quella voce, vive in quella stanza; ognuno il suo nome, è quel malato. Arriva fin qui da una storia soltanto sua: famiglia, ambiente, cultura, quattrini; ha il suo carattere, la storia della sua vita e della sua malattia. Come tutti ha conosciuto un modo di essere amato e di amare, la gioia e la sofferenza, ha incontrato la morte degli altri e legge nel modo che gli è proprio, la sua vita e la sua morte. Dicono che, arrivati al termine, ogni differenza sfumi. Quasi tutte forse, meno una: la prospettiva, se va oltre la soglia della morte. Uno sguardo di buio o di luce: il nulla o la vita. E' l'unica distinzione che resta e da essa discendono valutazioni, scelte e atteggiamenti differenti. Prospettiva che influisce anche nel comportamento del malato terminale (comportamento peraltro sempre unico). Spesso, quando viene dimesso dall'ospedale, il malato si rende conto che restano soltanto le cure palliative e affiora, a volte velato, il problema del suo finire, che avverte in modo certo e sconosciuto; ripensa la propria vita, sente l'urgenza di raccontarla, di condividerla con qualcuno che lo ascolti interessato e partecipe.

Quando prevale la convinzione del nulla oltre la morte, l'attenzione è rivolta soltanto al passato, talvolta in modo quieto, senza disperazione. La situazione attuale tuttavia, può suggerire a tutti interpretazioni nuove, significati mai intesi della propria esistenza. Questo ripensamento non muta il passato, muta spiritualmente l'uomo presente per la novità del suo giudizio critico, per un modo nuovo di porsi nell'amore, e ciò può permettergli di riconciliarsi con la vita, di intravedere una speranza. Spesso il malato non sa, non ricorda eppure il suo dolore e la sua morte trovano un posto nell'Amore Divino, nella fede in Gesù Risorto. Tutto è misteriosamente orientato verso il Regno di Dio, la morte è soltanto un evento della vita, non il termine, pur preceduta e accompagnata dalla sofferenza (lo è stato anche per il Crocefisso). Nell'ottica della Fede la vita non si interrompe, semplicemente muta nella sua manifesazione, muta nel modo di esistere che ci è stato promesso e che ci è ancora sconosciuto, ma continua sempre e sempre nel rispetto della nostra identità. A volte invece si profila più marcata la solitudine e l'incomunicabilità del malato. La morte chiede all'uomo di entrare in colloquio con stesso, forse con Dio. "Non posso dire agli altri il dolore che soffro, non riesco a comunicarlo". E' un isolamento che assedia nell'intimo e viene vissuto in modi differenti: col pianto oppure con silenzi quasi inespugnabili. Quando il dolore non sopporta parola, per il volontario conoscere questo isolamento, questo silenzio obbligato, rappresenta un punto di incontro e di distacco autentico, di comunione col malato. Dispone ad accettare di non potersi esprimere compiutamente e di non poter comprendere sino in fondo, apre ad una condizione più profonda e sofferta del limite. Ci si riconosce sullo stesso piano, accettando insieme il malato e sé stessi.

(continua)