sabato 21 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (Q. di L. 41°)

(segue da 40°)

Il cammino condiviso può richiedere al volontario la disponibilità ad intrattenersi con i familiari del malato anche oltre il tempo del decesso. Particolarmente chi resta solo a volte manifesta il rammarico di essere ormai abbandonato "anche" dal volntario; allora l'accompagnamento si protrae per una certa durata, sempre nella avvedutezza e nella discrezione del rapporto. Può essere utile in simili circostanze, tentare di approfondire insieme alcune riflessioni per comprendere e aiutare la vita che resta, quando viene a mancare una persona cara.

Quotidianamente televisioni e giornali ci parlano di morti, ma è gente che non conosciamo, forse una lieve emozione e non ci sentiamo coinvolti più di tanto.

Se muore invece chi amavo è uno schianto, la sua presenza mi invade improvvisa, è il suo volto; la sua espressione abituale mi parla di una realtà definitiva e riascolto le parole di ieri, forse di poco fa; accadeva nel tempo. Lui è arrivato, cominciano ad affiorare i "perché", la ricerca di significati; questa morte mi guarda, mi parla della mia morte, ci davamo del tu. Anche la realtà di chi è rimasto solo non è più quella di prima, e non è ricostituibile. C'è un non senso nel pensare e nel dire frasi di conforto come "deve rifarsi una vita". Nulla da rifare, la vita è unica, può solo continuare nella luce che hai scelto. Anche le novità più belle che i giorni potranno ancora riservare, saranno accompagnate dalle esperienze ormai costitutive di noi stessi. I ricordi non siano nostalgia sterile e ingombrante, ma spunti di vita più matura e ricca. Non dobbiamo dimenticare il passato e neppure mitizzarlo: "è passato" e non può essere richiamato in vita. E' necessaria una disciplina mentale e del cuore: i ricordi sono preziosi se aiutano la vita, diversamente ci si situa fuori dalla realtà, viviamo coi fantasmi...diventiamo fantasmi.

Non abbandoniamo le persone care che ci hanno lasciato, sono in comunione con noi; possiamo attualizzarne i ricordi nei loro valori e viverli nella realtà che ci circonda, possiamo sentirle vicine com testimoni invisibili del Regno, compagni sicuri di vita e di preghiera, insomma viviamo anche con loro alla presenza di Dio.

Dalla Croce ci è stata donata la maternità di Maria: "Donna ecco tuo figlio", e a Giovanni "Ecco tua Madre...e da quel momento il discepolo la prese nella sua casa". Occorre una pausa di ascolto. Noi preghiamo dicendo "..Adesso e nell'ora della nostra morte" e queste parole colgono nel segno l'incertezza della nostra realtà. Anch'io non conosco la mia ora, come, con chi o forse solo. Maria è una presenza sicura vicino al mio malato e a me. Come lei vorrei vivere con fiducia, innamorato della vita perché c'è il Signore.

Vorrei saper dire con Santa Teresa di Lisieux: "Nulla accade che Tu non consenta, nulla che Tu consenti è privo di speranza".

domenica 15 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (40° di Q. di L.)

(segue da 39°)


Fianco a fianco al malato si parla, quando è possibile fa capolino anche il buonumore, si sta zitti insieme, si condivide quello che accade. Col passare dei giorni lo conosci nel suo declinare e anche se la realtà della tua vita non ha niente in comune con lui, non puoi non identificarlo con te stesso. Sei tu quell'uomo che soffre, che si lamenta; che piange nel suo "dolore totale", che dice la sua fede, le sue imprecazioni , le sue bestemmie, il suo tremendo silenzio: Gesù ha accolto tutto questo e mi chiede di fare altrettanto. Questa è la nuova condizione se voglio pregare, per lui o anche per me soltanto, perché ormai fa parte della mia vita, ci presentiamo insieme davanti al Signore, ciascuno a suo tempo.

Ma non voglio tacere una difficoltà grande, un peso che a volte opprime: l'assenza di Dio. Quando il dolore fisico schianta e sembra non avere fine, anche dentro di noi sentiamo una protesta. "Dio basta, non ne posso più, Dio dove sei?" Non voglio descrivere il dolore fisico perché il terrorismo psicologico non aiuta la serenità del giudizio, ma con un autore francese (M. Bellet) dico anch'io "Parole come coraggio, dignità, pazienza in quei momenti vorresti cancellarle dal vocabolario". L'assenza di Dio non è però solo un fatto di oggi. Tutta la storia ne parla e persino la Storia della Salvezza: tra gli ulivi del Getzemani nemmeno la supplica del Figlio di Dio ha ricevuto soddisfazione. E dopo la sua morte il mondo non è cambiato. C'è il pericolo che diventi un uragano di pensieri, di dubbi e di ansie.

A mettere pace, la figura di Gesù e le sue parole: "Il mio Regno non è di questo mondo". Al limite Gesù domanda "Volete andarvene anche voi?". Sono parole paurose e affascinanti, cui gli apostoli rispondono "Signore, da chi andremo?". L'assenza di Dio è un cammino verso una Fede che matura, sempre più incomprensibile e per questo più intima a Dio. Misteriosi i significati profondi delle Scritture e dei percorsi della vita, anche di quella di Gesù, che apparentemente inascoltato dal Padre conclude "Nelle tue mani consegno il mio spirito". Anche a noi rimane questo percorso: la Fede fondata sulla sua Parola, che ancora una volta non può essere dimostrata ma soltanto accolta, davanti alla sua passione e morte come davanti alla passione e morte del malato. "Sia fatta la tua volontà", perché so che Tu mi vuoi bene.

Allora accolgo di nuovo il malato e la sua croce, riscrivo sul vocabolario le parole che avevo cancellate "coraggio, dignità, pazienza", e ne cerco altre, trovo "amore, speranza,perdono".

Ho parlato della morte alla luce della fede cristiana, e la speranza è che si faccia strada in noi l'idea che può esistere anche una relazione di amicizia con la morte: S. Francesco la chiama "Sorella nostra morte corporale". Forse la vera paura che incute la Morte è la paura del "dopo", per i cristiani la paura di non essere tra i salvati. Devo guardarmi dal dimenticare anche una sola parola del Vangelo, ma so che Gesù non ha mai cessato di amarmi, mi ha voluto bene anche mentre mi diceva del Giudizio e dell'Inferno: allora sono parole di amore, non di minaccia. Devo abituarmi ad ascoltarle dal luogo del suo amore, non della mia paura. Nella descrizione della tempesta sedata sul lago di Galilea, le parole di Gesù "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?" collegano la paura alla mancanza di Fede. Il Signore è sempre presente anche nelle tempeste con la sua misericordia. Dunque, se credo, neppure la salvezza del mio malato che dice di non credere, che vive una situazione di disagio...se ho Fede, persino la mia salvezza non è impossibile a Dio.

(segue)

lunedì 9 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (39° di Q.diL.)

( segue da 38°)


La prima testimonianza è l'amore per la persona che mi si presenta, il desiderio di accoglierla comunque, senza giudicarla. L'amore guida il malato all'incontro con Dio. Ricordo la frase impressionante e meravigliosa di Levinas "Non lasciare solo un uomo con la sua morte". Non dice di andare a fargli la predica, dice di amarlo; l'amore viene prima dell'annuncio, l'amore può essere annuncio e testimonianza. Madre Teresa di Calcutta fa sua la preghiera del card. Newman: " Ti renderemo lode nel modo che cui Tu preferisci, illuminando che ci sta accanto. Fa sì che Ti predichiamo senza predicare." In questa circostanza si trova spesso anche il volontario. Raramente il colloquio col malato, lo dico con le parole dell'Apostolo, porta "..a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi..", quasi sempre si tratta di tacere. Un "seme cresce nel silenzio e nell'oscurità della terra", non imoprta che io lo veda, e non importa se non conosco le conclusioni che Dio trae servendosi di me: la mia stessa opera Gli appartiene, come Gli appartiene il mio malato. In questo silenzio "obbligato" vivo la preghiera e l'ascolto come realtà che si dilata a tutta la vita, anche nell'azione ho bisogno di silenzio, perché Dio mi possa parlare. Ci si può richiamare al "Vegliate e pregate in ogni momento" del vangelo; parole distinte per un unico modo di essere. Dalla speranza cristiana e da questo amore, non dal dolore e dalla morte, da ciò che è positivo non dal negativo, si fa tenace la volontà di proseguire.

Questo servizio al malato terminale impone di immergersi e rimanere confinati nella concretezza della sua realtà, sempre uguale e ogni giorno nuova, e tuttavia l'esperienza si fa essenzialmente spirituale.

Nell'aggravarsi della malattia in quella stanza senti che si sta compiendo qualcosa di insolito e di definitivo. L'ordinario assume la sua imensione vera, qualcuno parla di "trasfigurazione delle cose". Proprio la gravità del malato richiede la normalità del comportamento.

Non è il caso di esasperare l'idea di vedere Gesù nel fratello malato. Possiamo riconoscerlo, è innegabile, tanto quanto nei nostri familiari, nei passeggeri sull'autobus, nel collega di lavoro. Ma c'è il rischio di enfatizzare: allontaniamo allora da noi una realtà che dobbiamo vivere con normalità "tutta umana" perché possa diventare autenticamente evangelica. Amo quell'uomo malato perché è un uomo (non perché in lui vedo Gesù, che pure c'è). Questa posizione è umiliante non solo per chi non condivide la Fede. Ogni uomo vuole essere considerato e amato per quello che è, non per quello che può rappresentare; instauriamo una relazione umana non sincera e non in obbedienza al comando di Gesù. Il riferimento evangelico è la parabola del Samaritano, il quale ha visto nel ferito soltanto un uomo, quell'uomo, non l'immagine di Dio. Gesù mi dice: "Vai e fai altrettanto". Solo più tardi, con sorpresa, ascolteremo le parole: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me."

( segue )

venerdì 6 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (segue- 38° di Q.di L.)

segue da n.37

E' possibile vivere un'esperienza di fede nelle tante situazioni che l'accompagnamento presenta? Certamente non una soltanto, non in un solo modo, per questo è auspicabile uno scambio di esperienze, un quaderno aperto alla concretezza, all'intelligenza e alla presenza del Signore. Da parte mia cerco innanzi tutto di restare fedele all'ispirazione che mi ha motivato a questa attività. E' sempre in agguato la tentazione di ridurre il volontariato a un attivismo che rischia di restare senz'anima se viene meno la dimensione spirituale. L'accesso al mondo del volontariato esige un tempo di riflessione. Sono molteplici e personali gli aspetti dell'indagine.

La domanda "Quale motivo ti spinge a questa attività?" mi è sempre presente, aggressiva e complessa. Perché? Per il malato, per me stesso; voglio "Fare del bene", è un ruolo che gratifica, per imparare un nuovo modo di amare, per imparare a morire, a sorridere, lo faccio per amore, e di chi? Ognuno dalla sua storia sa trarre una domanda nuova e ognuno, soltanto per , può tentare una risposta; però il tentativo va fatto. Col tempo si comprende che arrivare ad una risposta piena non è possibile, ma che si elabora un perché mai definitivo, che si completa con il passare dei giorni, o che potrebbe anche appassire e venir meno.

E' importante conferire al volontariato una proporzione corretta rispetto al contesto della propria vita, in modo di non alterare le priorità necessarie.

Il volontario non sceglie il malato, va dove è richiesta la sua presenza, nessun filtro, nessuna tessera di appartenenza, perciò può imbattersi in situazioni che non condivide. E' l'occasione in cui la fede viene messa alla prova per il rispetto assoluto che il volontario deve alla libertà, alla personalità del paziente e di chi gli sta vicino, ai valori in cui credono: tenta di non assumere posizioni critiche nei confronti di alcuno, anzi si dispone alla massima comprensione. Tenta, pur nel rapporto di affidabilità e tenerezza che lo lega al malato terminale, di tener fede alla propria identità.

Continua.