lunedì 9 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (39° di Q.diL.)

( segue da 38°)


La prima testimonianza è l'amore per la persona che mi si presenta, il desiderio di accoglierla comunque, senza giudicarla. L'amore guida il malato all'incontro con Dio. Ricordo la frase impressionante e meravigliosa di Levinas "Non lasciare solo un uomo con la sua morte". Non dice di andare a fargli la predica, dice di amarlo; l'amore viene prima dell'annuncio, l'amore può essere annuncio e testimonianza. Madre Teresa di Calcutta fa sua la preghiera del card. Newman: " Ti renderemo lode nel modo che cui Tu preferisci, illuminando che ci sta accanto. Fa sì che Ti predichiamo senza predicare." In questa circostanza si trova spesso anche il volontario. Raramente il colloquio col malato, lo dico con le parole dell'Apostolo, porta "..a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi..", quasi sempre si tratta di tacere. Un "seme cresce nel silenzio e nell'oscurità della terra", non imoprta che io lo veda, e non importa se non conosco le conclusioni che Dio trae servendosi di me: la mia stessa opera Gli appartiene, come Gli appartiene il mio malato. In questo silenzio "obbligato" vivo la preghiera e l'ascolto come realtà che si dilata a tutta la vita, anche nell'azione ho bisogno di silenzio, perché Dio mi possa parlare. Ci si può richiamare al "Vegliate e pregate in ogni momento" del vangelo; parole distinte per un unico modo di essere. Dalla speranza cristiana e da questo amore, non dal dolore e dalla morte, da ciò che è positivo non dal negativo, si fa tenace la volontà di proseguire.

Questo servizio al malato terminale impone di immergersi e rimanere confinati nella concretezza della sua realtà, sempre uguale e ogni giorno nuova, e tuttavia l'esperienza si fa essenzialmente spirituale.

Nell'aggravarsi della malattia in quella stanza senti che si sta compiendo qualcosa di insolito e di definitivo. L'ordinario assume la sua imensione vera, qualcuno parla di "trasfigurazione delle cose". Proprio la gravità del malato richiede la normalità del comportamento.

Non è il caso di esasperare l'idea di vedere Gesù nel fratello malato. Possiamo riconoscerlo, è innegabile, tanto quanto nei nostri familiari, nei passeggeri sull'autobus, nel collega di lavoro. Ma c'è il rischio di enfatizzare: allontaniamo allora da noi una realtà che dobbiamo vivere con normalità "tutta umana" perché possa diventare autenticamente evangelica. Amo quell'uomo malato perché è un uomo (non perché in lui vedo Gesù, che pure c'è). Questa posizione è umiliante non solo per chi non condivide la Fede. Ogni uomo vuole essere considerato e amato per quello che è, non per quello che può rappresentare; instauriamo una relazione umana non sincera e non in obbedienza al comando di Gesù. Il riferimento evangelico è la parabola del Samaritano, il quale ha visto nel ferito soltanto un uomo, quell'uomo, non l'immagine di Dio. Gesù mi dice: "Vai e fai altrettanto". Solo più tardi, con sorpresa, ascolteremo le parole: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me."

( segue )

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