lunedì 21 giugno 2010

Ascoltare la speranza (Luca) (17° di Quaderno di Lavoro)

Milano
Caro Luigi,
approfitto della busta che ti mando per esporti le riflessioni che mi sollecita il tuo scritto "Ascoltare la speranza".
Mi sembra di capire che in sostanza tu fai ammenda di una certa passata tendenza a dire " Questa speranza non ha senso", ad "assumere toni presuntuosi di una visione superiore delle cose" adottando quasi "la sufficienza distaccata dell'ovvietà"; e proponi invece di scavare sotto un comportamento apparentemente senza senso per scoprire il motore profondo (e ricchissimo di senso), cioè l'amore.
Concordo con te: uno scavo di questo genere non sarà mai lodato e raccomandato abbastanza. Ti dirò che io non avevo fatto una riflessione simile, ma verso la speranza infondata avevo una posizione positiva, sia pure per ragioni più modeste: e per arricchire il bestiario dei volontari ti espongo tale mia posizione (come al solito da povero ingegnere).
Secondo me: l'uomo è un animale irrazionale; specie quando gli eventi lo pongono davanti a situazioni insopportabili; infatti allora cerca sollievo nell'incoerenza, nell'alternanza tra uno stato A in cui riconosce la realtà e uno stato B in cui cancella la realtà per considerare soltanto un sogno, senza metterlo in discussione. A volte questi stati sembrano addirittura non succedersi nel tempo, ma coesistere: come se una parte del cervello pensasse in un modo, e contemporaneamente un'altra in un altro.
Io che guardo il malato dal di fuori vorrei soltanto che fosse il meno infelice possibile. Vorrei che lo stato B avesse la massima estensione possibile, fin quando possibile. E se qualcosa mi limita nell'incoraggiare il malato in tal senso è solo il tentativo (quanto difficile!) di fare un bilancio tra un piccolo sollievo ora ed una disperazione domani, più grave per la disillusione rispetto al sollievo.
Ti dirò che la mia posizione mi blocca nei casi (come ne ho uno ora: e intendevo metterlo sul tappeto nelle nostre riunioni) in cui il malato, perfettamente consapevole, dichiara di essere vicino alla fine. Io bofonchio qualcosa come "non bisogna impressionarsi di alti e bassi" o altre sciocchezze del genere; e il discorso passa ad altro. Ho evitato (o anche soltanto ritardato) un momento di disperazione? O non ho risposto ad una richiesta di aiuto? Aiuto come? Dove trovo l'aiuto da dare quando sul tavolo si pone apertamente un oggetto come la morte? Non la morte in senso generale, la morte di tutti: la morte a breve scadenza del solo mio interlocutore!
Quali parole? Quali pensieri? Dovrei essere un direttore spirituale, un santo, un profeta? Ed io che sono solo un povero ingegnere. Ne parleremo. Abbracci.

domenica 20 giugno 2010

" ci sto "

A messa pochi fedeli, raccolti. Il prete indugia qualche attimo, le braccia immobili tese verso l'alto a sostenere l'Ostia.
La guardo, e mi sorprendo a dire con determinazione dentro di me, "ci sto". Eleva il calice, e ripeto. Pensieri di intesa, di responsabilità assunta e di conforto. Un modo di dire inusuale in questo luogo, ma lì per lì prego come mi viene; forse il Signore riascolta volentieri le parole degli uomini, anche se logore, spesso disattese. In là con gli anni e in altro modo le ho certamente ripetute, eppure nascono come novità, il "canto" di ieri oggi se vuoi è un "canto nuovo".
Mi chiedo se oggi, coi capelli bianchi, ciò abbia senso , se vi sia qualcosa di adolescenziale. Si, ha senso, alla mia età ho più bisogno di Dio; in Lui bisogno di libertà e di salvezza, per tutti.
Una volta l'orizzonte era lontano, linea sottile di realtà molteplici, quasi indistinte; ora si è fatto vicino, l'angolo di visuale ridimensionato. Meno cose, più nitide, essenziali; promessa e mistero, esperienza di amore ricevuto.
La corrente mi ha portato alla foce, tutto mi è più familiare e caro, c'è più luce.
Appena in là, non so quanto, il mare aperto.
Signore ..."ci sto", ma Tu aiutami.