sabato 21 agosto 2010

Contributo alle riflessioni di Luca. (Continua 19° di Q. di L.)

Può essere utile riflettere sulle nostre esperienze vissute. Quando ci accostiamo al ricordo di una persona che ci ha lasciato, nella memoria ne fissiamo il volto, lo sguardo, quasi a frugare con speranza nella sua anima, nel suo spirito, in definitiva nel suo amore per raccogliere e trattenere in noi ogni bellezza che vi troviamo.
Svanisce l'interesse per ciò che ha fatto, per ciò che ha lasciato. Il bisogno di vita che ci portiamo dentro e l'ansia di poter rimanere ancora in comunione di amore, ci conduce inevitabilmente alla domanda profonda, essenziale: "chi era?..." "tu chi sei stato?"; in effetti la vita di ognuno, fino al suo spegnersi, è un intrecciarsi continuo con la vita degli altri, uno scambio reciproco di valori e di sentimenti. Mi sembra molto importante partecipare al malato terminale queste riflessioni: dal suo isolamento può rendersi conto che anche a lui, come al volontario, è concesso il privilegio di potersi occupare degli altri. Vivere "bene" il presente, come può, nella burrasca dei suoi giorni, anche per il malato terminale è dunque un atto di amore e di solidarietà verso le persone che lascia, un atto che lui soltanto può compiere. Dal nostro ricordo gli altri potranno trarre un aiuto concreto di fiducia nella vita, un ricordo di pace e di benedizione.
Forse "un malato perfettamente consapevole della sua fine" e sensibile a realtà non solo materiali, può trovare aiuto in queste riflessioni, e forse... anche il malato che invoca la morte.
L'altro argomento che riferisci riguarda un certo modo di avvicinarsi alla fine. La morte arriva dall'esterno, estranea al nostro corpo, un'entità che tenderà l'agguato, "tra poco mi verrà addosso la morte e ho paura" ha detto Mario ( Parlami della tua morte). E' la personificazione dell'idea della morte; questo modo di vivere il tempo della propria malattia, attinge all'immaginario popolare della tradizione nutrita da racconti, films e dall'arte stessa. Il malato che sperimenta queste rappresentazioni fantastiche ne viene interiormente turbato, vive emozioni negative, estranee alla realtà; realtà che potrebbe essere affrontata con minor angoscia, se semplicemente potesse liberarsi da questi fantasmi. Ritengo perciò inopportuno pronunciare la parola morte in simili contesti, particolarmente quando il paziente insiste nell'usarla.
Con una precisazione: tacere la parola morte non equivale negare al paziente di parlare della morte, o della sua morte.
Ti ringrazio ancora per questo scambio di idee sempre utile.
Un caro sauto.

giovedì 12 agosto 2010

Contributo alle riflessioni di Luca (19° di Q. di L.)

Caro Luca,


la tua piacevole ironia è un richiamo a non prenderci troppo sul serio approfondendo argomenti più grandi di noi. Ogni prospettiva, i dubbi e le perplessità, le interpretazioni personali ci stimolano reciprocamente a ripensare ciò che ci sembrava forse aver "risolto", per tentarne una nuova comprensione. Ti ringrazio di avermi inviato le due e-mail del 14 settembre e del 3 ottobre, e mi permetto risponderti in questo quaderno. Associo i temi che hai esposto per facilitarmi il compito.


Quanto alla necessità che accanto al malato terminale "perfettamente consapevole della sua fine imminente" vi sia la presenza di "un direttore spirituale, un santo, un profeta" (battuta a parte), mi sembra evidente che di necessario ed importante ci sia soltanto la tua, semplicemente la tua presenza, così come sei; a te infatti il malato si è rivolto. E poi, nella misura del possibile, mi sembra bello in compagnia del malato dimenticare i reciproci ruoli.


Introdurrei una riflessione sulla opportunità di prevedere questa domanda e prepararsi, sempre che il caso lo consenta, perché ne abbiamo tempo e modo mentre il malato progressivamene si avvicina a tale presa di coscienza. Distinguere in quale fase della malattia il paziente apre il dialogo sulla propria morte, (all'atto della comunicazione della diagnosi, dopo mesi o anni di sofferenza, oppure nella effettiva prossimità della fine) e godere della sua familiarità, favorisce l'intuizione del vissuto e delle attese; il colloquio può aprirsi agli aspetti più consoni alla singola persona ( ad esempio al tema della religiosità nella varietà delle confessioni di fede) ed ai problemi concreti attinenti la situazione attuale.
Quando il malato "consapevole" mi intrattiene sulla imminenza della propria morte, in pratica mi chiede di acconsentire a volergli bene sino a vivere insieme a lui la paura dell'abbandono che presagisce. Non sviare il discorso è già conferma delle sue stesse parole, è aiutare il malato ad avvicinarsi alla verità senza abbandonarlo, e se la relazione con lui è giunta ad una relazione particolarmente intensa, il colloquio non può che sfociare, oltre l'ascolto, nel mettere in comune ciò che ognuno di noi è e sente nel profondo di sé. Con sincerità rispettosa e prudente, con l'attenzione costante a non soverchiare la sua debolezza o l'impreparazione sia pure momentanea, in nome della verità (connessa al suo stato).
Il malato che mi parla della sua morte subito mi coinvolge, tento di vivere con lui l'estrema fragilità del tempo come lui la sente. Quando le sue parole mi colgono in un momento inatteso, allora la sorpresa e l'emozione sembrano sigillare la risposta. L'insidia sta nel riflesso spontaneo di rispondere in fretta, eppure anche una pausa di silenzio può essere risposta che acconsente. Accanto al letto del malato i servizi più marginali o il contatto fisico esprimono amore e condivisione, e favoriscono la scelta sempre difficile delle parole appropriate, "pensi che riguardi soltanto te?" "E' un periodo importante per te, ma lo è pure per i tuoi familiari..."
( segue )

sabato 7 agosto 2010

La purezza delle posizioni assolute

Poche parole tratte dal libro "come mi batte forte il tuo cuore" di Benedetta Tobagi, offrono l'opportunità di nuovi spunti di riflessione su un argomento similare a quello trattato ieri su questo blog. A mio avviso ne amplia l'orizzonte e introduce situazioni e contesti a noi più vicini.
"....La purezza delle posizioni assolute esercita un forte potere di seduzione, ma è una seduzione maligna. La purezza spesso non è altro che fuga, rifiuto di fare i conti con la complessità e i limiti della realtà.....
E' infantile dimenticare che, per agire, bisogna sempre "sporcarsi le mani" con la realtà: la cosa difficile è immergersi nel mondo senza sporcarsi l'anima. ....
Il compito che ci aspetta è particolarmente arduo, ebbe a dire un saggio dell'ebraismo, non sta a noi finire il lavoro, ma non siamo neppure liberi di ritirarci. ....."

giovedì 5 agosto 2010

Esigenza di discutere con franchezza

Un brano tratto da "L'infinito viaggiare", di Claudio Magris.
".......Mi accorgo di essere incerto sul tono giusto da assumere, sulla frontiera tra il rispetto della verità e il rispetto delle persone, la responsabile attenzione a non mettere altri in difficoltà e la cautela convenzionale. Mi sarebbe facile tuonare di libertà, democrazia e Occidente, senza preoccuparmi di mettere altri in imbarazzo e senza pagare dazio, lasciando che siano loro, eventualmente, a pagarlo. L'etica della responsabilità, che pensa non solo alla purezza degli ideali, ma anche alle loro conseguenze per gli altri, è un fondamento della vita civile e della democrazia. Mai come quando si viaggia, tuttavia, si sente quanto facilmente essa possa sfumare in involontaria complicità o almeno in colpevole neutralità. I residenti, i sedentari, sono costretti a fare i conti a fondo con la realtà in cui vivono, senza svicolare, come è consentito invece a chi la notte dopo dormirà sotto un altro cielo. ..."
Parole che hanno il sapore della metafora. Con quali altre, nella sfera delle relazioni private, familiari o pubbliche, potrei sostituire "libertà, democrazia, Occidente", lasciando intatto il senso del testo?

domenica 1 agosto 2010

Il malato accenna alla sua morte imminente (Luca) (18° di Q. di L.)

Luca


Presenti..... ( dagli appunti scritti, in ossequio alla privacy dei colleghi, ritengo opportuno riportare, oltre la domanda e il pensiero di Luca che introducono il Dialogo, soltanto il paragrafo che mi riuarda, a prosecuzione e complemento di quanto trattato nel capitolo precedente e nei due successivi).


Appunti schematici, senza la pretesa di riportare esattamente pensiero e parole dei presenti.

Luca chiede ai presenti osservazioni sulle risposte da dare ad un malato che accenna alla sua morte imminente; per sé dice che tende piuttosto a favorire, se non speranze infondate, almeno il dubbio sulla evoluzione della malattia o quanto meno sui suoi tempi; ma teme, così facendo, di evadere magari un più profondo bisogno del malato di aprirsi con qualcuno sulla sua vera situazione.
Luigi sottolinea l'importanza della sincerità: una risposta che non corrisponda a quanto si sente è molto pericolosa. E il retto sentire consiste nel vedere la morte non come una violenza puramente distruttiva che dal di fuori aggredisce e annulla la vita, ma come una possibilità di portare a compimento la vita stessa, confermandone e illuminandone le parti più valide, specie quelle segnate dal filo conduttore dell'amore.
Luigi evita persino di usare la parole "morte", perché non esiste una cosa a che si chiama morte (come invece esiste una cosa a che si chiama vita): esiste soltanto un momento della vita, il morire, che della vita è parte necessaria e al tempo stesso fondamenale.