giovedì 12 agosto 2010

Contributo alle riflessioni di Luca (19° di Q. di L.)

Caro Luca,


la tua piacevole ironia è un richiamo a non prenderci troppo sul serio approfondendo argomenti più grandi di noi. Ogni prospettiva, i dubbi e le perplessità, le interpretazioni personali ci stimolano reciprocamente a ripensare ciò che ci sembrava forse aver "risolto", per tentarne una nuova comprensione. Ti ringrazio di avermi inviato le due e-mail del 14 settembre e del 3 ottobre, e mi permetto risponderti in questo quaderno. Associo i temi che hai esposto per facilitarmi il compito.


Quanto alla necessità che accanto al malato terminale "perfettamente consapevole della sua fine imminente" vi sia la presenza di "un direttore spirituale, un santo, un profeta" (battuta a parte), mi sembra evidente che di necessario ed importante ci sia soltanto la tua, semplicemente la tua presenza, così come sei; a te infatti il malato si è rivolto. E poi, nella misura del possibile, mi sembra bello in compagnia del malato dimenticare i reciproci ruoli.


Introdurrei una riflessione sulla opportunità di prevedere questa domanda e prepararsi, sempre che il caso lo consenta, perché ne abbiamo tempo e modo mentre il malato progressivamene si avvicina a tale presa di coscienza. Distinguere in quale fase della malattia il paziente apre il dialogo sulla propria morte, (all'atto della comunicazione della diagnosi, dopo mesi o anni di sofferenza, oppure nella effettiva prossimità della fine) e godere della sua familiarità, favorisce l'intuizione del vissuto e delle attese; il colloquio può aprirsi agli aspetti più consoni alla singola persona ( ad esempio al tema della religiosità nella varietà delle confessioni di fede) ed ai problemi concreti attinenti la situazione attuale.
Quando il malato "consapevole" mi intrattiene sulla imminenza della propria morte, in pratica mi chiede di acconsentire a volergli bene sino a vivere insieme a lui la paura dell'abbandono che presagisce. Non sviare il discorso è già conferma delle sue stesse parole, è aiutare il malato ad avvicinarsi alla verità senza abbandonarlo, e se la relazione con lui è giunta ad una relazione particolarmente intensa, il colloquio non può che sfociare, oltre l'ascolto, nel mettere in comune ciò che ognuno di noi è e sente nel profondo di sé. Con sincerità rispettosa e prudente, con l'attenzione costante a non soverchiare la sua debolezza o l'impreparazione sia pure momentanea, in nome della verità (connessa al suo stato).
Il malato che mi parla della sua morte subito mi coinvolge, tento di vivere con lui l'estrema fragilità del tempo come lui la sente. Quando le sue parole mi colgono in un momento inatteso, allora la sorpresa e l'emozione sembrano sigillare la risposta. L'insidia sta nel riflesso spontaneo di rispondere in fretta, eppure anche una pausa di silenzio può essere risposta che acconsente. Accanto al letto del malato i servizi più marginali o il contatto fisico esprimono amore e condivisione, e favoriscono la scelta sempre difficile delle parole appropriate, "pensi che riguardi soltanto te?" "E' un periodo importante per te, ma lo è pure per i tuoi familiari..."
( segue )

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