domenica 30 maggio 2010

Ascoltare la speranza ( 17° di Quaderno di Lavoro)

Chi accompagna un malato terminale è consapevole fin dal primo incontro, che il suo amico malato lo lascerà presto. Questa certezza affievolisce, a volte scredita ai suoi occhi, il significato della speranza che perdura malgrado tutto, nei suoi familiari, e verso la quale a volte può sembrare bene opporre una certa resistenza per rendere meno doloroso l'impatto con la realtà finale. Per "familiare" intendo la persona che ha un rapporto personale profondo col paziente.
Non escludere l'eventualità di notizie di segno positivo, pur se poco probabili o addirittura inverosimili, manifesta un atteggiamento naturale, un sogno e un riposo, che non esimono tuttavia dalla consapevolezza del presente come esso concretamente si propone e lascia ragionevolmente prevedere. Ma il dolore a volte offusca l'evidenza, e la speranza sembra diventare semplice sostegno psicologico, è l'attesa di poter traghettare dal desiderio alla realtà ciò che si vorrebbe: la guarigione della persona cara. Attesa sempre delusa nell'accompagnamento: l'ineluttabilità dell'evento e la sua importanza spingono il volontario a considerare questa "fiducia" un'illusione temporanea, un problema marginale, "...Spera sempre, ma non c'è più niente da fare!", come dire "Questa speranza non ha senso." Sono molteplici le ragioni della speranza, e spesso coesistono: la paura fisica della morte, il timore di vedere compromessa una situazione nelle sue prospettive economiche, familiari, di vita quotidiana, ma su tutte quasi sempre prevale l'amore.
Si tratta di argomento poco dibattuto tra i volontari, e io stesso soltanto ora me ne occupo con impegno, dopo alcuni accompagnamenti che hanno particolarmente sollecitato la mia riflessione.
E' davvero senza significato la speranza dei familiari, davvero un'assurdità? Non dico qui la speranza che appartiene alla Fede, ma quella che incontro comunemente, di veder guarire il malato.
Forse ha un suo messaggio, un valore proprio, a prescindere dalla sua fondatezza. Alcuni comportamenti, alcune parole mi suggeriscono che, anche se priva di prospettive ragionevoli, nessuna speranza è "disperata", nessuna priva di senso.
Preme sul familiare il tempo della clessidra, ora più incline a dirgli quanto manca, e in questa attesa che si va esaurendo c'è l'apprensione, l'urgenza del poco che resta, si condensa tutto il vissuto, i vincoli, le gioie, i progetti...in questo terreno ha radice l'assurdo della speranza. Con voce ferma o con parole appena sussurrate o vissuta nel silenzio, anche se a tratti alterna ad una visione chiara dei fatti, la speranza è frutto di un amore grande che nulla può disarmare, a dispetto di ciò che sta per accadere. E' il bisogno di confermare a sé stesso questo amore, l'ansia di testimoniarlo a tutti, forse è annuncio di quello che non verrà meno dopo la morte del malato. Allora la speranza illumina il dolore, anche degli altri.
Come porsi davanti alla speranza dei familiari? Non si tratta di un "problema marginale", è cosa importante. Abbandono i toni presuntuosi di una visione superiore delle cose, la sufficienza distaccata dell'ovvietà. Nessuna astrazione speculativa sulla "speranza", ma l'ascolto dell'uomo e della donna che sperano, di quell'uomo e di quella donna nella presa di coscienza e nell'intensità del loro vissuto.
Le parole di chi spera chiedono ogni volta l'impegno del discernimento; a volte la comprensione e l'apprezzamento del senso nascosto che lasciano intuire. Accettare la morte del malato è un atteggiamento positivo che presuppone un cammino faticoso per i familiari; aiutarli a riconsiderare la loro speranza è un atto di amore che esige dal volontario, lungo il tempo dell'accompagnamento, una seria, costante attenzione alle persone, la condivisione solidale della loro sofferenza e al tempo stesso un particolare sforzo di obiettività, una partecipazione responsabile, coraggiosa e prudente. Alla fine, l'amore della speranza ormai svanita può fondersi con il dolore del distacco.

lunedì 17 maggio 2010

Colloqui di Fede (16° di Quaderno di Lavoro)

Quando il malato terminale non ha conosciuto prima della malattia la curiosità, il dubbio, la speranza della Fede, c'è imbarazzo a parlare di Dio.
Un uomo si compiace di vedere i giorni scorrere secondo i suoi progetti, tutto è pianificato e fluisce naturalmente, ma forse un pensiero sfugge al controllo, "un cane sciolto": ogni tanto arriva poi sparisce, mai però del tutto, è una presenza in sordina, disturba anche quando è assente.
Qualcuno tenta di ammansire il pensiero della morte con l'adesione formale alla Fede; un illusione accomodante, permette disimpegno accanto a un certo ottimismo, si vive tranquilli. E poi la morte non è qui.
Non è qui, fin quando non si accosta di prepotenza, inattesa; allora ti accorgi che il tuo corpo (che pure ti costituisce) dispone come e quando vuole di te. Allora può capitare di rendersi conto improvvisamente che non si è mai presa sul serio la Fede; il pensiero stesso di Dio può atterrire, nessuna familiarità con Lui, mai pensato, mai invocato. Dio, il Padre sconosciuto appare nelle vesti del giudice. Così, quando il malato lo richiede, avverto un senso di disorientamento, quasi di imbarazzo a parlare di Dio per il sospetto di ricattare un uomo mentre si trova in condizioni estreme, di sollecitare un atto di debolezza, un compromesso. E poi, parlare...di quale Dio? La speranza sottesa può essere il baratto al dolore e alla morte, alla paura di un Dio che vuole essere pagato.
La malattia può diventare occasione di riflessione sulle domande fondamentali della vita, ma la Fede non discende dal dolore né dalla paura, se ne tradirebbero l'annuncio, travisandone l'essenzialità e la purezza dell'origine. Accettare Dio, anche se il suo manifestarsi avviene nei tempi della sofferenza, resta una scelta spirituale, un' adesione al Signore che coinvolge tutto il nostro essere ed esistere. E' realtà spirituale radicata nel cuore: la attraversa il dolore e lo sconforto, la tormenta il dubbio. Quante volte preghiamo o sentiamo pregare perché il malato guarisca, e non guarisce, non soffra, e continua a soffrire, perché la morte interrompa il tempo del dolore, e la vita continua. Ma la Fede, accolta e custodita, è altro, resta salda nella speranza cristiana, in un amore arreso e fiducioso, nel mistero di un Dio che ci salva nella morte, non dalla morte.
E' sempre un'impresa più grande di noi parlare di Dio, è "impossibile", ma noi possiamo narrare di Gesù e tentare di testimoniarlo personalmente. Proprio per Fede so che le parole semplici scambiate con il malato, non sono le sole: Dio ha parole e silenzi che non odo e non conosco, modalità e tempi misteriosi. Dico parole "impossibili" come quelle dell'Annunciazione: chi le può credere? Maria ha creduto all'adempimento di quelle parole, e ci ha donato il Salvatore. Maria, la madre di Dio.

venerdì 14 maggio 2010

La Sindone

Stralcio da una lettera inviata a un protestante (di Elena Milazzo )





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Personalmente non amo le reliquie, sono allergica ai fanatismi, ma sulla sindone credo si debba riflettere cominciando ad ammettere che di un fenomeno straordinario si tratta comunque. Il papa ha giustamente "glissato" sul fatto che sia una reliquia; in effetti nessuno lo ha mai affermato con certezza e non si tratta di un "dogma". Si può discutere sul clamore mediatico che ormai emana non solo dall'ostensione della sindone, ma da qualunque fatto inerente la chiesa cattolica e di cui sinceramente molti cattolici farebbero a meno; si può discutere del fatto che una schiera di "sinodologi d'assalto" si sforzino di dimostrarne l'autenticità; si può discutere sull'aspetto economico-turistico che investe diocesi e città di Torino e che forse contribuisce a gonfiare l'evento per fini di lucro. Tutte cose sacrosante. Ma veniamo alla gente. Ho visto la sindone molti anni fa, certo più di trenta. Non mi interessava e non mi interessa la sua autenticità come telo che ha ricoperto il corpo di Gesù, ma se non è autentica (e penso che non lo sia), è ancora più straordinaria. E allora è giusto considerarla come un'icona, che aiuta a pregare e a riscoprire nei Vangeli ciò che racconta come immagine. Potrebbe essere un oggetto che suscita il desiderio di saperne di più, riscoprendo nei Vangeli la narrazione della passione e della morte di Gesù? Riporto l'obiezione di Piero Stefani in proposito:

Solo se fosse possibile prescindere da ogni discorso circa la sua autenticità o la sua falsità avrebbe senso andare a Torino per vedere la Sindone. C'è da dubitare che ci si trovi in queste condizioni. Resta in ogni caso certezza di fede che leggere e meditare la narrazione della morte di Gesù secondo i quattro Vangeli costituisca l'accesso più autentico per cogliere il senso della morte di Gesù. Nel credere, l'ascoltare prevale sempre sul vedere. Scrisse Kafka:" Chi crede non vedrà mai un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle."

Nel credere, l'ascoltare prevale sempre sul vedere, ha ragione Piero. Ma all'inizio, spesso, c'è una visione: non fu così per Paolo? L'ascolto in Paolo coincise con la visione. La visione della sindone può alludere, per molti, a parole della passione narrata nei Vangeli. L'ostensione della sindone potrebbe suscitare un cammino iniziato per curiosità e continuato per grazia. Io vorrei che si distinguesse tra la sindone e le reliquie in genere. Le reliquie portano facilmente a fanatismo e superstizione, la sindone è diversa e anche se il rischio di fanatismo e superstizione è comunque presente questo esito non è detto sia sempre prevalente tra quanti si recano a vederla. Il vostro timore che si "relativizzi la Parola di Dio" ci mette in allerta e deve richiamare i responsabili di questi pellegrinaggi ad una grande attenzione, ma negare in assoluto che la cosa possa orientare in modo positivo la fede di tanti lo ritengo sbagliato. Si tratta di un atteggiamento comprensibile nei protestanti (troppo devozionismo in casa cattolica!) ma forse, sulla sindone, è eccessivo.

sabato 8 maggio 2010

Colloquio breve

A messa. Pochi fedeli, raccolti. Il prete indugia qualche attimo, immobile a sostenere l'Ostia, le braccia tese verso l'alto.
La guardo, e mi sorprendo a dire lento, dentro di me con fermezza "ci sto". Poi eleva il calice, e ripeto, uguale determinazione. Parole di intesa, di responsabilità assunta e di conforto. Un modo che non ho mai pensato per dire la Fede, prego lì per lì come mi viene; e poi penso che il Signore riascolti volentieri le parole degli uomini, anche se logore, spesso disattese. Un vecchio le ha già ripetute, eppure nascono come novità, "il canto" di ieri, oggi se vuoi è "un canto nuovo".
Mi chiedo se tutto ciò abbia senso alla mia età, se vi sia qualcosa di adolescenziale. Eppure sì, ha senso, è differente dalla prima volta e anche dal "canto" di ieri, è qualcosa di più, ho bisogno di esprimerlo.
Preghiera semplice, però da ripensare, da approfondire sempre quella che non fabbrico io, quella che lo Spirito dice.
Una volta l'orizzonte "era lontano", linea sottile di realtà molteplici, quasi indistinte; ora si è fatto vicino, l'angolo di visuale ridimensionato. Meno cose, più nitide, essenziali. La corrente mi ha portato alla foce, tutto sembra più chiaro, appena in là, non so quanto, il mare aperto.
Signore...."ci sto", ma Tu aiutami.