mercoledì 28 aprile 2010

Perché questa scelta - Il tempo nella terminalità (termina 15° di Q. di L.)

Il presente nel tempo dell'attesa.




Tutti abbiamo sperimentato il tempo dell'attesa, aspettando qualcuno o qualcosa, o che accadesse un evento (forse la vita stessa è attesa), ma nella quotidianità abbiamo anche sperimentato che soltanto nel tempo presente vi è la possibilità di affermarci, di crescere, di ritrovare noi stessi, di realizzare e imprimere un senso nel concreto della nostra vita.
Il malato terminale provato dalla situazione in cui giace, spesso disperde il presente per viverlo come tempo di attesa: aspetta l'esito degli esami, la visita dell'infermiere, attende la luce del giorno perché la casa si faccia più viva, forse un amico, attende che la sua ansia si plachi.
E' importante restituire al malato "il tempo presente", aiutarlo a recuperare il concreto quotidiano vivendo insieme a lui le cose di sempre: la sua casa, le persone, tutto ciò che di positivo lo circonda, per nella sofferenza; accanto in una presenza lieta e sobria, predente e vigile nei momenti del dolore.
La "sosta" nel tempo presente concede la possibilità di riconsiderare tutto ciò che accade in una comprensione più ampia della vita (passata e attuale), di scoprire forse nuovi significati, prospettive inattese e forse una speranza oltre la morte. Il presente è l'unico tempo di cui disponiamo.
Soltanto nel fluire del presente posso ascoltare il Signore, tenere fisso in Lui lo sguardo: se mi è concesso, vivere alla presenza di Dio.

martedì 27 aprile 2010

Perché questa scelta - Il tempo nella terminalità. (Continuazione 15° di Q. di L.)

Il presente nel tempo che scade.



Durante la frequentazione del malato terminale affiora il senso del tempo che scade, nel suo lento maturare o nell'irrompere improvviso. I fatti celati nel lungo periodo, in quel determinato momento si manifestano come definitivi, oppure accadono del tutto inattesi nell'immediatezza, e scade un tempo che segna la vita che rimane; c'è stupore, o sgomento, ma tutto rientra inesorabilmente nel concreto della corporeità e del tempo.
La persona, quando ancora non sa di essere malata, ascolta la diagnosi e in quell'istante si sente altro: si scopre assegnata all'umanità malata di cancro.
L'ultima volta che ha guidato, camminato senza supporti, che ha portato il cucchiaio alla bocca, o appena prima o dopo l'intervento che deturpa, l'amputazione.. Istanti come cesoie che scendono a interrompere i tempi, a modificare funzionalità fisiche o intellettuali, abitudini di vita e relazioni; soglie che in successione vengono varcate in un solo senso e sommessamente preparano a ciò che avverrà. Tutto ciò appare al volontario come qualcosa di assoluto, di non negoziabile, oltre le frontiere della medicina, qualcosa di crudele ma che appartiene al ciclo della natura, alla vita.
Non sempre il malato percepisce che proprio in quel momento si è voltata una pagina della sua storia: il corpo soggiace a una natura che impone, e il recente diventa ricordo. Del resto "l'accompagnamento" indica un cammino, parla perciò anche dell'abbandono di un luogo, abbandonare per andare avanti: contesti obbligati, inseparabili. Insieme, fin dove è concesso: poi la persona malata si inoltra da sola.
( continua )

lunedì 26 aprile 2010

Perché questa scelta. Il tempo nella terminalità (Continuazione 15° di Q. di L.)

Mentre riflettevo sul senso del mio essere volontario, m'è capitato di ascoltare la voce sommessa del malato "Perché mi succede tutto questo, perché proprio ora?". E' la fisicità della sofferenza, del bisogno di amore, della vita prossima all'abbandono. Le parole del malato, il mio esserci vicino a lui, il silenzio condiviso in quella stanza, forse sono la risposta che non sapevo dare al "Perché di questa scelta?".
Risposta impegnativa per il volontario; permette di intuire che ogni accompagnamento riserva un cammino di maturazione e la visione concreta della finitezza dell'uomo. L'incontro con queste realtà chiede da un lato di approfondire le ragioni sul senso ultimo della vita, dall'altro sollecita a prendere coscienza del tempo presente e ad accoglierlo nel momento in cui lo viviamo, anche quando sembra scorrere invisibile nella quotidianità.
Ogni accompagnamento ha come schema comune di fondo il susseguirsi delle fasi della malattia, con un proprio ritmo di aggravamento sino al compiersi della vita. In questo spazio di tempo si disegna la storia personale del malato, quella della sua malattia, e si inserisce la figura del volontario che, svincolato da interessi professionali o scientifici, è in grado di riservare tutta la propria attenzione alla persona sofferente nella sua complessità.
In un clima di accoglienza e di rispetto, l'accompagnamento si rivela punto di osservazione critica del vissuto del malato, dei suoi familiari e delle reazioni del mondo esterno di fronte alla malattia, nei vari aspetti e gradi di coinvolgimento.
Mi soffermerò ora su due argomenti che ritengo di frequente impatto per i volontari.
( continua )

domenica 25 aprile 2010

Perché questa scelta. Il tempo nella terminalità (15° di Q: di L.)

Approccio informativo sulle U.C.P.D. - Spunti di conversazione con gli studenti universitari Facoltà di Medicina.
Perché questa scelta ?
E' la domanda che ogni volontario pone a stesso particolarmente all'inizio dell'attività, e sulla quale insistono le psicologhe nei colloqui di idoneità e di ammissione al gruppo operativo. Può suscitare imbarazzo per la propensione a schermirsi dal mettere a nudo convinzioni profonde e perché esige un certo lavoro di introspezione. La risposta che ne segue tratteggia, pur sommariamente, un atteggiamento e una concezione di vita che interessano non soltanto il volontario, ma anche le persone con le quali egli viene in rapporto: il malato in primo luogo, che non tarderà a porre questa domanda, i colleghi poi in un confronto di mentalità, i medici, gli infermieri.
Educazione familiare, esperienze personali, bisogno di esprimere solidarietà, fede religiosa, disponibilità di tempo, risultano spesso i luoghi cui attingere le motivazioni, che tuttavia appaiono a volte troppo generiche.
Col tempo ci si accorge che la domanda è complessa e non si esaurisce con una risposta; anzi non è mai compiuta, si ripresenta ogni volta che conosciamo un nuovo malato e ogni volta che il malato ci lascia, con il senso della vita e l'interpretazione della morte che il malato ci svela, con le parole delle persone che gli sono vicine.
Ne prendiamo coscienza nell'ascolto. Ascoltare, una parola come le altre, ma che in questo volontariato presiede ogni attività: l'ascolto delle parole, dei bisogni, degli sguardi, del silenzio, delle situazioni...è difficile spiegarlo a chi non può immaginare la lotta che il malato terminale sostiene in stesso, la paura di sentirsi solo nella malattia, l'urgenza di parlare del suo passato, di quello che gli sta succedendo, i suoi stati d'animo di fronte a ciò che sente incombere e non conosce. E' un ascolto che lo consola e lo aiuta. L'importanza della conversazione può indurre il volontario a "fingere" di non aver compreso bene la domanda, a chiedere puntualizzazioni superflue. Rimandare la risposta per dare tempo al malato di riproporre con altre parole e altri particolari ciò che gli sta a cuore, significa aiutarlo ad essere più consapevole del pensiero e delle convinzioni che va maturando.
Sorprende come la sofferenza, che al suo apparire può stravolgere le prospettive di vita di un intero nucelo familiare, a volte possa mettere in luce nelle persone doti, capacità, aspetti positivi mai immaginati: si sperimenta lo stupore, la sorpresa opposta alla esperienza della delusione. Anche questo scenario colpisce l'animo dei volontari sino ad avvertire riconoscenza verso chi soffre ed essere più umili.
( continua)

martedì 20 aprile 2010

La cappella ecumenica di BOSSEY (Ginevra)



Una linea orizzontale e una più lunga verticale, a piombo. Linee diritte, le croci dei campanili, degli altari.... a volte le vogliamo elaborate, questione di stile, gusto personale.

Nella cappella di Bossey appesi al muro due pali scortecciati, si direbbe raccolti "a caso" nei boschi vicini, inchiodati l'uno all'altro, per niente a piombo, nessuna simmetria.

I due bracci diseguali, il tratto verso il capo e quello del corpo, ognuno discontinuo nella forma, mai una linea diritta.

Ci si perde davanti a questa croce. Sconvolge, è silenzio.

Come è diversa dalle croci dei campanili, dalla parola "croce" che pronunciamo nelle nostre preghiere: la pensiamo già accolta, ordinata nelle forme, nelle proporzioni, che abbia almeno una dignità,....poi di colpo eccola che ti parla dal muro: ogni tratto di quei legni è mistero, incomprensibile, non sai come raccapezzarti, come è possibile,..con sforzo risali a Chi c'è stato, e non puoi non pregare.

Questa croce sorprende in ogni suo tratto, come quella che viene data a ciascuno, e a ciascuno resta accanto il Signore, insieme e invisibile lungo tutto il cammino.

Non vi è croce uguale all'altra, ognuna un pezzetto di croce della cappella di Bossey, eppure tutte si unificano nell'Unica. E non solo nella croce, ancor prima nella preghiera di ogni confessione e nella consapevolezza di un Dio che ci ama. Tutti.