mercoledì 14 dicembre 2011

La bellezza

Dico a mezza voce "divento vecchio e sono più sensibile alla bellezza", si parla in famiglia così per confidarsi, dire come ci si sente, come si cambia. Parole sincere però, la bellezza è sempre tonificante. Poco tempo e a qualcuno viene in mente di chiedermene conto, il come, il perché, il senso.

Già me lo ero chiesto io, alla mia età sto in allerta a vedere dove la vita mi conduce, quali novità mi accadono, forse senza che me ne accorga. E' bello ricevere una domanda così esplicita e inattesa, intrisa di attenzione e insieme di interesse autentico a ciò che cambia. So che mi sarà difficile esprimere come percepisco la bellezza, come la vivo e tuttavia mi soffermo volentieri, con semplicità, senza sfide, senza pretesa di generalizzare.

Ho scritto un elenco di riflessioni, ad alcune non avevo mai pensato prima, potrebbero interessarmi. Cancello, parlano della bellezza non dicono la risposta più intima a chi me l'ha chiesta.

Quando appare, nelle grandi o nelle piccole occasioni, la bellezza mi sorprende sempre, diventa subito compagna del mio cammino, è viva la bellezza e mi sospinge a un rapporto interiore più alto; a volte il suo mostrarsi induce al silenzio, all'attesa, non so se di qualcosa di nuovo oppure di qualcosa che ancora continua. La bellezza sembra superare stessa.

L'incontro con ogni bellezza allieta e mi rimanda a sperarne altra; mi è difficile però comprenderne a fondo gli echi che si rincorrono nella mente e nel cuore, certo non può ridursi tutto alle emozioni. Non so dare risposta a me stesso e non credo perciò di aver dato soddisfazione alla domanda che Giovanni mi ha rivolto.

Mi fermo qui.

Dicevo "divento vecchio" (già lo sono), forse ho più bisogno della bellezza perché ho più bisogno di Dio...e di tutti, di tutti insieme.

Guardo il calendario, tra pochi giorni è Natale: un augurio "bello" e affettuoso ai miei pochi lettori, accompagnato dalla gioia annunciata dagli Angeli.

sabato 3 dicembre 2011

Il silenzio

( Cecilia Covini - Arma di Taggia, marzo 2005 )


Quando non rispondi alle offese
quando non reclami i tuoi diritti
quando lasci a Dio la difesa del tuo onore

il silenzio è mitezza

Quando non riveli le colpe dei fratelli
quando perdoni senza indagare nel passato
quando non condanni ma intercedi nell'intimo

il silenzio è misericordia

Quando soffri senza lamentarti
quando non cerchi consolazione dagli uomini
quando non intervieni ma attendi che il seme germogli lentamente

il silenzio è pazienza

Quando taci per lasciar emergere i fratelli
quando celi nel riserbo i doni di Dio
quando lasci che il tuo agire sia interpretato male
quando lasci ad altri la gloria dell'impresa

il silenzio è umiltà

Quando taci perché è Lui che agisce
quando rinunci ai suoni, alle voci del mondo per stare alla sua presenza
quando non cerchi comprensione perché ti basta essere conosciuto da Lui

il silenzio è fede

Quando abbracci la Croce senza chiedere "perché ?"

il silenzio è adorazione

SI FA SILENZIO PER ASCOLTARE DIO

martedì 15 novembre 2011

L'amore gridato ( 48° di Q. d L. )

( età 58, operaio, moglie, figlio, figlia, tre nipoti )


La settimana scorsa è migliorato sensibilmente, sino a sedersi al tavolo di cucina, finalmente senza sondino, a intrattenersi, bere e mangiare.

La speranza si infiamma, poi l'oncologo dice che l'innesto è riuscito. Il terzo innesto.

Da qualche giorno volge al peggio. Si mettono a punto le visite specialistiche, i passi obbligati della burocrazia, si fanno previsioni, si riparla anche di hospice...Lui ascolta.

Interrompo il suo silenzio con una frase scontata.
" Quando si è importanti si muovono molte persone ".

" Importante chi, io? "

La figlia non lascia terminare la frase e a voce alta
" Si, importante! "

Lui mugugna, contesta.

La figlia incalza, urla " Si, importante per noi, cosa pensi che sei, una merda? Invece no, per
noi sei importante, importante! "

" Ma cosa gridi adesso? " e si accoccola, tira il lenzuolo quasi sugli occhi.

Più che una carezza, più di parole forbite, l'abbraccio, l'amore gridato; se l'è sentito scaraventato addosso pulsante, coraggioso; se ne è avvolto tutto a goderne il tepore come in una coperta che protegge, cara da sempre, cara più di ogni cosa.

E' l'amore dei suoi, di questa bellissima famiglia.

sabato 5 novembre 2011

PASSAGGI, GESTO, TERRA, ....

PASSAGGI, GESTO, TERRA,

TRASFORMAZIONE, PELLE,

RICERCA, MANI, AZIONE,

DISCIPLINA, ESPRESSIONE,

LIBERTA', CONTATTO, OCCHI, ...



Parole a caratteri grandi, in nero sulla parete bianca. E' l'ingresso di una società sportiva, se entri non puoi non leggerle. Costruzione grammaticale compatta, quasi mozzafiato. Parole non gettate a caso sul muro, ciascuna isolata, in apparente solitudine l'una cucita all'altra. Sento che qualcosa mi manca, forse una vena di dolcezza, vorrei leggerle accompagnate da parole più umane, di quelle anche taciute ma che stanno nel cuore di ognuno a dire sorriso, accoglienza, bisogno di volerci bene.

Tante persone passano, giovani, genitori e leggendo possono sognare speranza di sicurezza, di forza, promesse di conquista.

Il fatto è che le esperienze che abbiamo alle spalle inducono a volte a scorgere in filigrana un pensiero, un senso nascosto, alla mia età risuona l'eco di uno stile già conosciuto. Chissà se anche ad altri guardando quella parete bianca è accaduto, per alcuni istanti, di farsi seri in volto.

Oltre il primo impatto,più quieto osservo. La gente passa e non legge, ha in mente altro, va di fretta oppure si ferma premurosa a intrattenere il bambino, o mentre esce si da voce per ritrovarsi..

Intanto la vita continua in tutte le sue potenzialità, forse in una forte consapevolezza del contesto critico attuale e del bisogno di evadere..., ma questo mi sta a cuore: la speranza che il rumore e le grida di ciò che è accaduto prima nel mondo, non scivolino nel silenzio del tempo.

venerdì 28 ottobre 2011

Dario, il mio amico (47° di Q. di L.)

( segue da 46° di Q. di L.)


Vedo Dario ansimare, è sconvolto; si agita in modo scomposto, a scatti afferra e ripone la maschera dell'ossigeno, il viso congestionato esprime sofferenza e paura. Impreca. La moglie è tranquilla "... E' sempre stato un tipo nervoso...". Evidente quanto sia alta la soglia del pericolo. Telefono subito al medico: 25 gocce sublinguali e 60 diluite e iniettate nel sondino. Pochi minuti, la crisi si avvia a soluzione. Sopraggiungono la dottoressa e l'infermiera e ritengo opportuno lasciare la casa. Ancora un saluto quieto, affettuoso anche da parte sua, accenna un sorriso, un grazie. Ora ha la forza di parlare con il laringofono. Il forte spavento induce Dario ad accettare senza indugi il ricovero all'Hospice dove, pur perfettamente assistito, spirerà la settimana dopo.


Riascolto mentalmente la lentezza faticosa del suono sommesso, la voce non permetteva di più, lo svolgersi di parole chiare, distinte: la bestemmia.


Sgomento; sorpresa, dolore, sofferenza , speranza, paura, amore, grido e silenzio, stati d'animo contrastanti, sensazioni, non c'è tempo per descrivere per riordinare, in me è un sentire unico nel bagliore di un attimo, in uno sguardo che vaga alla ricerca di Dio, in quella stanza. In punto di morte quasi una sfida a viso aperto.


Ho avuto la percezione della presenza non visibile ma reale di Dio. Persone, cose, in uno spazio interamente posseduto, colmo, allagato da Dio, improvvisamente unica realtà e riferimento assoluto. Senza parola, la sola presenza interpella. Nessuna via di fuga, nessun tempo che passa, tutto in attesa, immobilità dovuta. Attorno la realtà immutata, l'interesse e l'affetto verso il malato e insieme il disagio, la repulsione fisica per ciò che osservi e aggredisce, ma priva del coinvolgimento di prima, vi è distacco, tutto è sospeso, proiettato come in uno sfondo, nell'ombra. Non ho mai bestemmiato (non è un vanto), eppure davanti all'Immenso c'ero anch'io in quella bestemmia, anch'io nel male del mondo. Prima zitto, mi sono ritrovato a supplicarLo al plurale, "noi due", io in prima persona a contraddire l'ovvietà, in nome di un perdono che tante volte ho ricevuto e mi ha salvato; pregavamo, io e Dario inconsapevolmente con me. Il Signore che mi ha voluto tanto bene, non può non perdonarmi anche la colpa che ho nel mio compagno malato, non può non perdonare anche a lui e salvarlo come ha salvato me. Gli ho ricordato che per questo è stato sulla croce. Al nostro parlare m'è parso aggiungersi una voce. Ho ricordato Emmaus. Quando il Signore mi chiamerà vedrò Dario nella luce dei Santi.


La conversione, il pentimento...il catechismo? Non so, ma mi chiedo perché Gesù, che per anni ha annunciato con fermezza il Regno, abbia sentito il bisogno sulla Croce di amarci (oserei dire) "oltre" l'Annuncio e pregare con le parole "Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno".


Verso casa una via quieta, pochi passanti e poche macchine, e ripenso attonito all'amore e alla gloria di Dio nel segreto del quotidiano: in quella stanza scomposta un malato, una inferma di mente, un volontario. Accetto l'ironia di chi non crede, la compiacente perplessità dello psicologo; ma davanti a certe morti e certe esistenze, al tempo che chiude, capriccioso e sempre muto...o Dio c'è, il Dio di Gesù, oppure tutto non ha senso. Però la Fede non è una resa.


Signore spiegami più a fondo che cosa mi è accaduto oggi. Ti sono grato eppure ho timore, ho bisogni di chiederti perdono e bisogno di lodarti. Ma quali parole, dove troverò ciò che è degno?


" Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore " ( salmo 115,13 )

venerdì 14 ottobre 2011

Dario, il mio amico (46° di Q. di L.)

La nostra relazione costituisce un'oasi di quiete, si fa sempre più personale e interessante; Dario mi chiede di darci del tu. Improvvisamente da un contesto assolutamente concreto, un'esperienza spirituale forte nel momento più delicato della crisi. Non tratteggio le ricadute ambientali che la malattia e la situazione particolare comportano, anche se ciò permetterebbe di cogliere più viva l'intensità dei fatti. Le condizioni di Dario esigono sorveglianza continua, praticamente inattuabile in famiglia. Una scheda breve, ed eludo come di consueto, ogni identità.

Malato
Neoplasia esofago; un'apertura a vista praticata alla base del collo. Non assume cibi, né liquidi per via orale. Lievi emorragie; se accentuate pericolo di soffocamento. Afono, quando è in forze parla con l'ausilio del laringofono. Non accetta l'offerta del ricovero all'Hospice.

Moglie
Inferma di mente da anni, inaffidabile. E' presenza continua e assillante, ora insostenibile per il malato.

Figlia
Mostra interesse e cura fattiva, ma assente per necessità negli orari di lavoro e durante i lunghi spostamenti.

"Non posso mangiare, bere, non fumare, m'è rimasto un dente qui davanti, sono qui soltanto a aspettare la morte; (pausa,sorride)...eppure mi piace vivere! ...".

Così come lo vedi e ti guarda, le ultime parole sono insopportabili. Gli sono vicino, anche se non ho la presunzione di comprendere sino in fondo la sua sofferenza; glielo dico, poi aggiungo che avrei avuto piacere di conoscerlo molto, molto tempo fa; ci saremmo scambiati tante idee, esperienze, avremmo avuto "il piacere di litigare" e il piacere di ritrovarci vicini, ancora insieme come adesso.

Però, per quanto lo conosco, gli ho detto, vedo altro nella sua realtà. Il bene corrisposto che lo lega alla figlia (annuisce), e il bene che vuole a sua moglie, anche se ora è una presenza ancor più problematica: non l'ha mai lasciata sola, le ha teso la mano per lunghissimi anni. Gli dico che nella sofferenza si porta dentro anche questo, il bene verso cui tutti ci incamminiamo, qualunque siano le nostre convinzioni.

Dario, classe 1932. Socialista antico, attivo nella lotta sindacale, idealista, contestatore del suo stesso partito, operaio meccanico specializzato in missione anche all'estero, anticlericale convinto, ironico e allegro; tante volte abbiamo discusso e riso insieme. Una storia diversa dalla mia, ormai mio amico.

Ci salutiamo con la solita cordialità. Esco per ritirare da una ditta specializzata il laringofono che avevo portato a riparare, e sono di ritorno dopo un'ora.

Vedo Dario ansimare, ..
( Segue)

domenica 25 settembre 2011

Preghiera di un soldato (45° di Q. di L.)


Questa preghiera sembra appartenesse a un soldato americano caduto nella battaglia di Montecassino.

(Da un'altra trincea, forse quella dell'esperienza,  della preghiera anche del mio malato)


Senti Dio, vorrei dirti, come stai?...
Vedi, Dio, mi dicevano che tu non esisti e come uno sciocco vi ho creduto.
Ieri sera da una trincea ho veduto il tuo cielo...ho compreso immediatamente che mi avevano detto una bugia.

Se mi fossi preso la pena di vedere le cose che tu hai creato avrei capito che quelli non chiamavano le cose con il loro nome.

Io mi domando, Dio, se tu vorresti stringermi la mano.
In qualche modo sento che mi capirai.

Strano...  dovevo venire in questo luogo d'inferno per avere il tempo di vedere il tuo volto.

Bene, penso che non vi sia più molto da dire.
Ma sono veramente contento, Dio, di averti incontrato oggi.
Indovino che l'ora zero sarà presto qui: ma non ho paura perché so che tu sei vicino.
Il segnale! Bene, Dio, devo andar via.
Io ti amo molto, molto...questo vorrei che sapessi.

Adesso, vedi, questa lotta sarà orribile...chissà...
 può darsi che io venga stasera a casa tua...

Mi domando, Dio, sebbene prima io non fossi tuo amico
se mi aspetterai alla tua Porta...
Guarda, io piango... verso lacrime... vorrei averti conosciuto
in tutti questi anni...
Ora devo andare, Dio, arrivederci.

Strano... da quando ti ho incontrato
non ho più paura di morire.








venerdì 22 luglio 2011

Incontri

Santa Maria Maggiore


Luglio inquieto, nubi, tante nubi per tutti...ma una diversa l'ho incontrata.

Non è una nuvoletta e neppure un' enormità di nube, semplicemente direi una nube adulta, elegante questo sì.

E' apparsa nell'azzurro pulito pulito di oggi, sfolgorante il bianco dei bordi frastagliati, forse li esalta il contrappunto di poche ombre discrete al suo interno, un tratto di maturità.

Illuminata da un sole nascosto incanta, è leggera, bella, è libera, disponibile al vento se ne va appoggiata sul nulla e nulla chiede a nessuno.

Altre nubi più grandi l'assorbiranno, si fonderà, si scioglierà fino a scomparire.

Svanirà. Ma non la bellezza che mi ha dato.

sabato 2 luglio 2011

Volontario compagno del malato (44° di Q. di L.)

(Segue da 43°)


Comprendere il senso delle parole, il tono della voce, lo sguardo, i silenzi: l'ascolto è il cuore dell'accompagnamento. Cerco di rimanere solidale col malato anche quando affiorano divergenze di mentalità, diversità di valori; il rispetto per la libertà dell'altro è condizione e sorgente di comunicazione. Solidale nei momenti più difficili quando, pur nell'assurdità della prova, ti pare di vivere insieme a lui il bisogno di essere accolto in un amore grande dove deporre finalmente la sua stanchezza, la sofferenza sua innanzi tutto, e la tua. E' il bisogno che tutti abbiamo di un amore gratuito, laici e credenti. Gratuitamente ci hanno amato i genitori, chi ha fede può dire "il Padre" e da questa esperienza siamo stati iniziati ad amare. Forse la presenza del volontario può essere un segno di questo amore.

L'accompagnamento del malato terminale è occasione e speranza di vivere la fede che incontra la vita nella sua concretezza. I giorni della salute, della forza, non suggeriscono questi pensieri, "L'uomo nella prosperità non comprende..." (Salmo 49,21), ma qui emozioni e sentimenti si condividono, questa realtà ci allinea, ci rende tutti uguali.

Per il cristiano questo volontariato è ascolto, presenza attiva e al tempo stesso contemplazione, preghiera. Dalla materialità così tangibile di un corpo e delle cose semplici come l'arredo di una stanza, un uomo passa ad una realtà "altra", non più legata alle categorie del tempo, dei sensi.. a una realtà attesa e promessa nel mistero di Dio, "Ritornerò e vi prenderò con me perché siate anche voi dove sono io" (Giov. 14,3). "Qualcuno" che non vedo e non odo è qui.

Sentiamo parlare di questi mali con commiserazione, a volte ascoltiamo apprezzamento per i volontari che li seguono, ma chi dice, almeno a stesso, nell'animo o in un incontro di amici-fratelli cristiano, della presenza di Gesù, di Maria che intercede "nell'ora della nostra morte?".

Ho colleghe e colleghi, alcuni si definiscono "laici", cui mi sento molto legato dall'affetto e dalla stima, dalla riconoscenza per quanto mi hanno dato e coi quali vivo la gioia di ricevere e offrire il bene.

Sarebbe bello accogliere altri volontari e condividere con loro questa esperienza di amore, vissuta nella fede e nella preghiera.

lunedì 20 giugno 2011

Volontario compagno del malato (43° di Q. di L.)

(Articolo per la parrocchia)


Molti pazienti oncologici raggiungono oggi la guarigione o una terapia di controllo compatibile con la normalità della vita. Altri, nella propria abitazione , sono affidati alle "Unità di Cure Palliative Domiciliari" e il volontario può essere invitato dal personale sanitario, nella distinzione dei ruoli, ad offrire il suo contributo di assistenza. E' subito chiaro che l'aspetto medico, pur importantissimo, non è l'unico motivo di inquietudine.

Col passare dei giorni il malato si accorge di non appartenere più al mondo esterno, che pure era il suo: il lavoro, gli impegni, gli svaghi, le amicizie si rarefanno e presto diventano realtà lontane. I limiti che la malattia impone diventano barriere che isolano. L'affiorare di queste difficoltà, i ricordi rappresentano ogni volta un confronto e un distacco premonitore di "qualcosa" che accadrà, e col pensiero il paziente ripercorre la storia della sua vita, della sua malattia, della sua famiglia; il suo modo di valutare l'esistenza.

Il volontario domiciliare offre la sua disponibilità a rimanere vicino al malato; in modo figurativo si parla di "accompagnamento", cioè di andare insieme, in un contesto semplicemente "umano" non professionale, con il bagaglio spirituale, culturale e psicologico che ognuno porta con , senza imporlo e senza rinunciarvi. Nessuna finzione dunque, nessun secondo fine. "Accompagno", non conduco: è il malato nella sua strada obbligata a decidere la cadenza del passo, l'arrancare o la sosta; a volte si affretta, non sempre è facile tenerne il ritmo. Il volontario non lo abbandona, ha attenzione e affetto anche per la sua famiglia, per le persone che a qualunque titolo gli sono vicine e soffrono solidalmente con lui, o ne sopportano la presenza.

( segue)

sabato 11 giugno 2011

Figura di donna

Figura di donna giovane seduta, ritratta di lato. Piedi appoggiati a uno sgabello un po' in là dalla seggiola. In luce viva il collo, i capelli ondulati raccolti alla nuca, e parte delle mani giunte. Viso appena reclinato in avanti a custodire le mani giunte del bambino che tiene sulle ginocchia.

E' mia madre, lui mio fratello Francesco, due anni circa. La foto in bianco e nero lo ritrae frontalmente. Piedi e gambe si agganciano, capelli chiari, braccia ben tornite, in camicia da notte bianca senza maniche; tutto in luce viva, accesa nel vestito scuro della mamma. E' impegnato nella operazione delle sue manine, paffuto e serio di quella serietà innocente che fa sorridere i grandi e li fa pensare. Dietro, un lettino con la rete di corda ai lati, intravedo la tappezzeria del muro, l'anta di un armadio ma tutto è sfumato. Scene nel quotidiano della mia famiglia, anche per me che sono l'ultimo è stato così.

Non è poco, la mamma accanto al letto col suo bambino, il respiro unico della preghiera. E' tempo dedicato. Non ho scritto parole da Libro Cuore, è ricordo di dolcezza e di sobrietà, immagine sì d'altri tempi ma la terra buona è scelta di ieri come di oggi.

Da lì, dalle mani giunte della mamma e del bambino inizia la "storia della mia preghiera", sempre più personale, e mi accorgo che più che storia "mia" in sostanza è la storia di Gesù in me. Ricostruirla a tu per tu con Lui (e con Maria), non scriverla, tentare di comprenderne i significati e viverli; la meraviglia per l'impensabile e il "definitivo" accaduti, sorprese ritrovate o riconosciute soltanto ora. Il Signore che non ti abbandona e si fa sempre più vicino, più intimo.

Anche questo è tempo dedicato.

Da lì, dalle mani giunte della mamma e del bambino inizia "la storia della mia preghiera"...eppure ho care le parole di S. Agostino:

" Tardi ti ho amato,.."

venerdì 3 giugno 2011

Dedicato a chi è giovane

La voce stessa dice da subito il mio nome e chi mi chiama, la sorpresa, poi sorrisi aperti. Lo trovo in gamba il mio amico Luca, veleggia verso i novanta, sempre sottile, non solo il pensiero, e con la sua bella ironia.

- Luca! Che bello, come stai..
- Luigi, e tu?
- Bene, gli dico e tra il serio e il faceto,.. ho 78 anni, sono vecchio..
- Lui, breve stacco riflessivo,.."aspirante vecchio".

Quattro passi insieme, in centro dalle parti di Via Santa Marta, parliamo del più e del meno,..
il piacere dell'incontro, godiamo insieme la sincerità dell'amicizia che non è passata.

giovedì 2 giugno 2011

Voglia di ricominciare (42° di Q. di L.)

Settembre.

Dopo le ferie la voglia di ricominciare. Prima però una pausa di riflessione, un momento di ascolto del Gruppo, per rinsaldare la coesione tra noi, l amicizia.

Tutti siamo volontari da anni e forse ci sfiora il rischio di riprendere automaticamente l'attività, di mettere in secondo piano i contenuti forti che ci hanno motivato. Sicurezza comprensibile, ma che può affievolire l'apertura a indagare vie nuove nell'ascolto attivo dell'accompagnamento. A fasi ricorrenti può ripresentarsi il rischio di professionalizzare il volontariato, di defilarci dal coinvolgimento e dalle relative domande di base. Ne propongo alcune tra le quali scegliere, se si vuole, la pista di riflessione più grdita.

Riconosco nell'accompagnamento l'umanità del malato e mi sintonizzo con lui in questa dimensione, oppure mi preoccupo per prima cosa del terreno sul quale confrontarmi ( appartenenza a ideologie o fedi, livello culturale, sociale..) Quali le conseguenze di tale scelta?

Il rispetto dell'umanità del malato esclude qualsiasi strumentalizzazione (proselitismo politico-religioso, problemi familiari..) ?

La frequentazione della sofferenza e della morte influisce sul mio modo di concepire la vita? Sono i miei convincimenti e le mie scelte personali a suggerirmene l'interpretazione?

Nella storia di un accompagnamento sono presenti scenari negativi. E' importante scoprire aspetti positivi nel malato e nei familiari? Si tratta di una ricerca doverosa o soltanto inerente allo stile personale del volontario?

L'immagine corrente del volontario è adeguata, sottovalutata, mitizzata?

sabato 21 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (Q. di L. 41°)

(segue da 40°)

Il cammino condiviso può richiedere al volontario la disponibilità ad intrattenersi con i familiari del malato anche oltre il tempo del decesso. Particolarmente chi resta solo a volte manifesta il rammarico di essere ormai abbandonato "anche" dal volntario; allora l'accompagnamento si protrae per una certa durata, sempre nella avvedutezza e nella discrezione del rapporto. Può essere utile in simili circostanze, tentare di approfondire insieme alcune riflessioni per comprendere e aiutare la vita che resta, quando viene a mancare una persona cara.

Quotidianamente televisioni e giornali ci parlano di morti, ma è gente che non conosciamo, forse una lieve emozione e non ci sentiamo coinvolti più di tanto.

Se muore invece chi amavo è uno schianto, la sua presenza mi invade improvvisa, è il suo volto; la sua espressione abituale mi parla di una realtà definitiva e riascolto le parole di ieri, forse di poco fa; accadeva nel tempo. Lui è arrivato, cominciano ad affiorare i "perché", la ricerca di significati; questa morte mi guarda, mi parla della mia morte, ci davamo del tu. Anche la realtà di chi è rimasto solo non è più quella di prima, e non è ricostituibile. C'è un non senso nel pensare e nel dire frasi di conforto come "deve rifarsi una vita". Nulla da rifare, la vita è unica, può solo continuare nella luce che hai scelto. Anche le novità più belle che i giorni potranno ancora riservare, saranno accompagnate dalle esperienze ormai costitutive di noi stessi. I ricordi non siano nostalgia sterile e ingombrante, ma spunti di vita più matura e ricca. Non dobbiamo dimenticare il passato e neppure mitizzarlo: "è passato" e non può essere richiamato in vita. E' necessaria una disciplina mentale e del cuore: i ricordi sono preziosi se aiutano la vita, diversamente ci si situa fuori dalla realtà, viviamo coi fantasmi...diventiamo fantasmi.

Non abbandoniamo le persone care che ci hanno lasciato, sono in comunione con noi; possiamo attualizzarne i ricordi nei loro valori e viverli nella realtà che ci circonda, possiamo sentirle vicine com testimoni invisibili del Regno, compagni sicuri di vita e di preghiera, insomma viviamo anche con loro alla presenza di Dio.

Dalla Croce ci è stata donata la maternità di Maria: "Donna ecco tuo figlio", e a Giovanni "Ecco tua Madre...e da quel momento il discepolo la prese nella sua casa". Occorre una pausa di ascolto. Noi preghiamo dicendo "..Adesso e nell'ora della nostra morte" e queste parole colgono nel segno l'incertezza della nostra realtà. Anch'io non conosco la mia ora, come, con chi o forse solo. Maria è una presenza sicura vicino al mio malato e a me. Come lei vorrei vivere con fiducia, innamorato della vita perché c'è il Signore.

Vorrei saper dire con Santa Teresa di Lisieux: "Nulla accade che Tu non consenta, nulla che Tu consenti è privo di speranza".

domenica 15 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (40° di Q. di L.)

(segue da 39°)


Fianco a fianco al malato si parla, quando è possibile fa capolino anche il buonumore, si sta zitti insieme, si condivide quello che accade. Col passare dei giorni lo conosci nel suo declinare e anche se la realtà della tua vita non ha niente in comune con lui, non puoi non identificarlo con te stesso. Sei tu quell'uomo che soffre, che si lamenta; che piange nel suo "dolore totale", che dice la sua fede, le sue imprecazioni , le sue bestemmie, il suo tremendo silenzio: Gesù ha accolto tutto questo e mi chiede di fare altrettanto. Questa è la nuova condizione se voglio pregare, per lui o anche per me soltanto, perché ormai fa parte della mia vita, ci presentiamo insieme davanti al Signore, ciascuno a suo tempo.

Ma non voglio tacere una difficoltà grande, un peso che a volte opprime: l'assenza di Dio. Quando il dolore fisico schianta e sembra non avere fine, anche dentro di noi sentiamo una protesta. "Dio basta, non ne posso più, Dio dove sei?" Non voglio descrivere il dolore fisico perché il terrorismo psicologico non aiuta la serenità del giudizio, ma con un autore francese (M. Bellet) dico anch'io "Parole come coraggio, dignità, pazienza in quei momenti vorresti cancellarle dal vocabolario". L'assenza di Dio non è però solo un fatto di oggi. Tutta la storia ne parla e persino la Storia della Salvezza: tra gli ulivi del Getzemani nemmeno la supplica del Figlio di Dio ha ricevuto soddisfazione. E dopo la sua morte il mondo non è cambiato. C'è il pericolo che diventi un uragano di pensieri, di dubbi e di ansie.

A mettere pace, la figura di Gesù e le sue parole: "Il mio Regno non è di questo mondo". Al limite Gesù domanda "Volete andarvene anche voi?". Sono parole paurose e affascinanti, cui gli apostoli rispondono "Signore, da chi andremo?". L'assenza di Dio è un cammino verso una Fede che matura, sempre più incomprensibile e per questo più intima a Dio. Misteriosi i significati profondi delle Scritture e dei percorsi della vita, anche di quella di Gesù, che apparentemente inascoltato dal Padre conclude "Nelle tue mani consegno il mio spirito". Anche a noi rimane questo percorso: la Fede fondata sulla sua Parola, che ancora una volta non può essere dimostrata ma soltanto accolta, davanti alla sua passione e morte come davanti alla passione e morte del malato. "Sia fatta la tua volontà", perché so che Tu mi vuoi bene.

Allora accolgo di nuovo il malato e la sua croce, riscrivo sul vocabolario le parole che avevo cancellate "coraggio, dignità, pazienza", e ne cerco altre, trovo "amore, speranza,perdono".

Ho parlato della morte alla luce della fede cristiana, e la speranza è che si faccia strada in noi l'idea che può esistere anche una relazione di amicizia con la morte: S. Francesco la chiama "Sorella nostra morte corporale". Forse la vera paura che incute la Morte è la paura del "dopo", per i cristiani la paura di non essere tra i salvati. Devo guardarmi dal dimenticare anche una sola parola del Vangelo, ma so che Gesù non ha mai cessato di amarmi, mi ha voluto bene anche mentre mi diceva del Giudizio e dell'Inferno: allora sono parole di amore, non di minaccia. Devo abituarmi ad ascoltarle dal luogo del suo amore, non della mia paura. Nella descrizione della tempesta sedata sul lago di Galilea, le parole di Gesù "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?" collegano la paura alla mancanza di Fede. Il Signore è sempre presente anche nelle tempeste con la sua misericordia. Dunque, se credo, neppure la salvezza del mio malato che dice di non credere, che vive una situazione di disagio...se ho Fede, persino la mia salvezza non è impossibile a Dio.

(segue)

lunedì 9 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (39° di Q.diL.)

( segue da 38°)


La prima testimonianza è l'amore per la persona che mi si presenta, il desiderio di accoglierla comunque, senza giudicarla. L'amore guida il malato all'incontro con Dio. Ricordo la frase impressionante e meravigliosa di Levinas "Non lasciare solo un uomo con la sua morte". Non dice di andare a fargli la predica, dice di amarlo; l'amore viene prima dell'annuncio, l'amore può essere annuncio e testimonianza. Madre Teresa di Calcutta fa sua la preghiera del card. Newman: " Ti renderemo lode nel modo che cui Tu preferisci, illuminando che ci sta accanto. Fa sì che Ti predichiamo senza predicare." In questa circostanza si trova spesso anche il volontario. Raramente il colloquio col malato, lo dico con le parole dell'Apostolo, porta "..a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi..", quasi sempre si tratta di tacere. Un "seme cresce nel silenzio e nell'oscurità della terra", non imoprta che io lo veda, e non importa se non conosco le conclusioni che Dio trae servendosi di me: la mia stessa opera Gli appartiene, come Gli appartiene il mio malato. In questo silenzio "obbligato" vivo la preghiera e l'ascolto come realtà che si dilata a tutta la vita, anche nell'azione ho bisogno di silenzio, perché Dio mi possa parlare. Ci si può richiamare al "Vegliate e pregate in ogni momento" del vangelo; parole distinte per un unico modo di essere. Dalla speranza cristiana e da questo amore, non dal dolore e dalla morte, da ciò che è positivo non dal negativo, si fa tenace la volontà di proseguire.

Questo servizio al malato terminale impone di immergersi e rimanere confinati nella concretezza della sua realtà, sempre uguale e ogni giorno nuova, e tuttavia l'esperienza si fa essenzialmente spirituale.

Nell'aggravarsi della malattia in quella stanza senti che si sta compiendo qualcosa di insolito e di definitivo. L'ordinario assume la sua imensione vera, qualcuno parla di "trasfigurazione delle cose". Proprio la gravità del malato richiede la normalità del comportamento.

Non è il caso di esasperare l'idea di vedere Gesù nel fratello malato. Possiamo riconoscerlo, è innegabile, tanto quanto nei nostri familiari, nei passeggeri sull'autobus, nel collega di lavoro. Ma c'è il rischio di enfatizzare: allontaniamo allora da noi una realtà che dobbiamo vivere con normalità "tutta umana" perché possa diventare autenticamente evangelica. Amo quell'uomo malato perché è un uomo (non perché in lui vedo Gesù, che pure c'è). Questa posizione è umiliante non solo per chi non condivide la Fede. Ogni uomo vuole essere considerato e amato per quello che è, non per quello che può rappresentare; instauriamo una relazione umana non sincera e non in obbedienza al comando di Gesù. Il riferimento evangelico è la parabola del Samaritano, il quale ha visto nel ferito soltanto un uomo, quell'uomo, non l'immagine di Dio. Gesù mi dice: "Vai e fai altrettanto". Solo più tardi, con sorpresa, ascolteremo le parole: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me."

( segue )

venerdì 6 maggio 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (segue- 38° di Q.di L.)

segue da n.37

E' possibile vivere un'esperienza di fede nelle tante situazioni che l'accompagnamento presenta? Certamente non una soltanto, non in un solo modo, per questo è auspicabile uno scambio di esperienze, un quaderno aperto alla concretezza, all'intelligenza e alla presenza del Signore. Da parte mia cerco innanzi tutto di restare fedele all'ispirazione che mi ha motivato a questa attività. E' sempre in agguato la tentazione di ridurre il volontariato a un attivismo che rischia di restare senz'anima se viene meno la dimensione spirituale. L'accesso al mondo del volontariato esige un tempo di riflessione. Sono molteplici e personali gli aspetti dell'indagine.

La domanda "Quale motivo ti spinge a questa attività?" mi è sempre presente, aggressiva e complessa. Perché? Per il malato, per me stesso; voglio "Fare del bene", è un ruolo che gratifica, per imparare un nuovo modo di amare, per imparare a morire, a sorridere, lo faccio per amore, e di chi? Ognuno dalla sua storia sa trarre una domanda nuova e ognuno, soltanto per , può tentare una risposta; però il tentativo va fatto. Col tempo si comprende che arrivare ad una risposta piena non è possibile, ma che si elabora un perché mai definitivo, che si completa con il passare dei giorni, o che potrebbe anche appassire e venir meno.

E' importante conferire al volontariato una proporzione corretta rispetto al contesto della propria vita, in modo di non alterare le priorità necessarie.

Il volontario non sceglie il malato, va dove è richiesta la sua presenza, nessun filtro, nessuna tessera di appartenenza, perciò può imbattersi in situazioni che non condivide. E' l'occasione in cui la fede viene messa alla prova per il rispetto assoluto che il volontario deve alla libertà, alla personalità del paziente e di chi gli sta vicino, ai valori in cui credono: tenta di non assumere posizioni critiche nei confronti di alcuno, anzi si dispone alla massima comprensione. Tenta, pur nel rapporto di affidabilità e tenerezza che lo lega al malato terminale, di tener fede alla propria identità.

Continua.

martedì 19 aprile 2011

L'accompagnamento vissuto dal volontario in un itinerario di fede cristiana (37° di Q. di L.)

Al volontario non piace pensare in astratto il malato terminale, quasi fosse una categoria. Il suo malato ha quel volto, quella voce, vive in quella stanza; ognuno il suo nome, è quel malato. Arriva fin qui da una storia soltanto sua: famiglia, ambiente, cultura, quattrini; ha il suo carattere, la storia della sua vita e della sua malattia. Come tutti ha conosciuto un modo di essere amato e di amare, la gioia e la sofferenza, ha incontrato la morte degli altri e legge nel modo che gli è proprio, la sua vita e la sua morte. Dicono che, arrivati al termine, ogni differenza sfumi. Quasi tutte forse, meno una: la prospettiva, se va oltre la soglia della morte. Uno sguardo di buio o di luce: il nulla o la vita. E' l'unica distinzione che resta e da essa discendono valutazioni, scelte e atteggiamenti differenti. Prospettiva che influisce anche nel comportamento del malato terminale (comportamento peraltro sempre unico). Spesso, quando viene dimesso dall'ospedale, il malato si rende conto che restano soltanto le cure palliative e affiora, a volte velato, il problema del suo finire, che avverte in modo certo e sconosciuto; ripensa la propria vita, sente l'urgenza di raccontarla, di condividerla con qualcuno che lo ascolti interessato e partecipe.

Quando prevale la convinzione del nulla oltre la morte, l'attenzione è rivolta soltanto al passato, talvolta in modo quieto, senza disperazione. La situazione attuale tuttavia, può suggerire a tutti interpretazioni nuove, significati mai intesi della propria esistenza. Questo ripensamento non muta il passato, muta spiritualmente l'uomo presente per la novità del suo giudizio critico, per un modo nuovo di porsi nell'amore, e ciò può permettergli di riconciliarsi con la vita, di intravedere una speranza. Spesso il malato non sa, non ricorda eppure il suo dolore e la sua morte trovano un posto nell'Amore Divino, nella fede in Gesù Risorto. Tutto è misteriosamente orientato verso il Regno di Dio, la morte è soltanto un evento della vita, non il termine, pur preceduta e accompagnata dalla sofferenza (lo è stato anche per il Crocefisso). Nell'ottica della Fede la vita non si interrompe, semplicemente muta nella sua manifesazione, muta nel modo di esistere che ci è stato promesso e che ci è ancora sconosciuto, ma continua sempre e sempre nel rispetto della nostra identità. A volte invece si profila più marcata la solitudine e l'incomunicabilità del malato. La morte chiede all'uomo di entrare in colloquio con stesso, forse con Dio. "Non posso dire agli altri il dolore che soffro, non riesco a comunicarlo". E' un isolamento che assedia nell'intimo e viene vissuto in modi differenti: col pianto oppure con silenzi quasi inespugnabili. Quando il dolore non sopporta parola, per il volontario conoscere questo isolamento, questo silenzio obbligato, rappresenta un punto di incontro e di distacco autentico, di comunione col malato. Dispone ad accettare di non potersi esprimere compiutamente e di non poter comprendere sino in fondo, apre ad una condizione più profonda e sofferta del limite. Ci si riconosce sullo stesso piano, accettando insieme il malato e sé stessi.

(continua)

lunedì 28 marzo 2011

La morte di un uomo dal punto di vista naturale (36* di Q. di L.) (segue 35*)

* " In realtà la morte non tace, soltanto non ci dà risposte e pone le sue parole sulla bocca di chi sta per morire."

Quante volte le abbiamo ascoltate dai nostri malati. Noi volontari siamo testimoni delle loro domande sommesse: "Perché?" come un sussurro, amaro alla fine, quasi un grido per chi l'ascolta. Perché? A me doveva capitare? A cosa m'è servito? Che senso ha? Proprio adesso?

* " Le domande che non sono emerse lungo la vita le impone oggi con autorità la morte. Certo, la morte interroga soltanto non dà risposte. A noi è concessa e richiesta una scelta di valori, a qualunque sfera essi appartengano, che si maturano lungo la vita. Scelta di senso dunque, ricerca cauta e coraggiosa: perché l'interpretazione che l'uomo dà della sua morte è suscettibile anche di una risposta tragica: quella di dare alla vita un non senso. E' l'appiattimento, il livellamento alla banalità del quotidiano; spariscono i sogni più belli, i progetti, le speranze, le grandi utopie...:è la disperazione, se tutto si sfascia, tutto finisce perché e come vivere?"

A uno sguardo superficiale possono sembrare considerazioni astratte, mentre sono estremamante concrete: qui si innestano in modo appropriato problemi importanti come quello dell'eutanasia (prima di essere una richiesta di morte è quasi sempre una richiesta di senso), dell'accanimento terapeutico, quello del suicidio, dell'aborto, o più semplicemente del comportamento disinvolto con cui frequentemente si mette in gioco la vita.

Fin qui il tentativo di considerare alla sola luce della ragione la certezza della morte dell'uomo, lo sforzo di non relegarne il concetto alla "morte degli altri". A mio avviso queste sono le premesse naturali che tracciano il quadro nel quale si disegna ogni vita: mi premeva recuperare un senso naturale della morte perché è condivisibile da ogni uomo, qualunque ideologia o fede professi; perché prepara ad accettarla e perché prenderne coscienza predispone ad ogni successiva elaborazione, anche di carattere spirituale e religioso.

Vorrei contribuire a "smitizzare" l'idea della morte, spogliarla dei fantasmi che spesso l'accompagnano, vorrei saperla pensare nel modo più vero e più semplice, senza nulla togliere alla sua severità e alla sua importanza, senza nulla aggiungere al suo limite, al suo vuoto.

Insieme siamo arrivati alla soglia delle grandi scelte: da qui ognuno, in modo autonomo e responsabile può iniziare il cammino impegnativo delle ricerca di senso, dei vaolori e della realtà spirituale a cui orientare la vita. Ho iniziato a parlare della morte e mi sorprendo a parlare della vita, a pensarla in modo estremamente impegnativo, la vita concreta che ci sta di fronte, la sua realizzazione. Emerge il bisogno di possedere significati, punti di riferimento forti, capaci di farci sempre più consapevoli delle nostre scelte.

* Enzo Bianchi - Priore di Bose - Conferenza nella Parrocchia di S. Giovanni in Laterano, Milano.
Appunti non visionati dal relatore.

venerdì 25 marzo 2011

La morte di un uomo dal punto di vista naturale (35° di Q. di L. )

( segue 34°)



* "L'uomo che nasce avrà una fine, perciò possiamo dire che la morte è connaturata all'uomo: l'uomo muore semplicemente perché è vivo e dotato di una vita finita, questa è la causa prima della sua morte. Ma parlare della "connaturalità" della morte, dire cioè che è una necessità della natura, non deve portare a nessuna mistificazione o fraintendimento.

Di fronte alla morte, si sente la necessità di tendere ad un equilibrio esistenziale che eviti da un lato l'insensibilità e la superficialità, e dall'altro la tragedia che segni per sempre in modo deleterio, la nostra vita personale o la vita di chi ci sta accanto.

Chi ha assistito un morente sa che si tratta di un equilibrio non facile, perché è violento l'impatto tra la realtà concreta e partecipata del malato vivo, e l'immediatezza della sua immobilità definitiva, di una quiete estranea, sconosciuta alla vita, che nello spazio di un attimo pervade e sigilla il corpo nel momento stesso in cui si disabita. Improvvisamente si manifesta la grande assenza. E' violenta la morte, anche per la sua inafferrabilità. Ci disorienta, ridimensiona in noi l'importanza delle cose grandi e di quelle piccole, l'importanza di quello che pensiamo di essere, di quello che abbiamo; la morte travolge il tempo e la quotidianità. L'uomo è sgomento al pensiero della morte; sa che gli è richiesta una disponibilità permanente a consegnarsi: non esiste una vita tanto importante o tanto protetta da non poter essere interrotta in ogni momento. Per tutta la vita col pensiero ne rimandiamo l'evento, ma quando sopraggiunge la incontriamo soltanto nel presente, nell'adesso, ora e qui, come non avremmo mai pensato. La morte insomma è tra le realtà che l'uomo non può rifiutare né modificare, non ne conosce e non ne controlla tempi e modalità. Sgomenta perché è la nostra esperienza ultima.

Si resta attoniti, stupiti: dove sono finite le emozioni che l'uomo esprimeva, l'intelligenza, il suo pensiero logico, l'umorismo, la sua personalità...che fine hanno fatto? Perché la morte ha aggredito il corpo, ma l'uomo non è soltanto una realtà biologica. Insomma la morte dovrebbe spiegarsi al di là della scienza, invece sta zitta. Proprio questo silenzio spalanca una finestra sull' "oltre" della morte, su ciò che non si può udire né vedere, e forse è bene essere un frequentatore dell'invisibile, un frequentatore attento però. E' la curiosità di scoprire se nelle cose esista un significato che le trascende, e sia possibile guardare avanti per capire il presente. E' un punto di arrivo obbligato e perciò punto di partenza per la riflessione. Ma la morte tace davvero?

La morte esige una scelta di senso da attribuire alla vita, e l'interpretazione che ognuno da della sua morte, del dopo, dà il senso alla sua vita. In altre parole, se sai per che cosa e per chi morire, sai anche per che cosa e per chi vivere."

Queste affermazioni trovano spazio nella nostra esperienza di volontari domiciliari.

( Continua )

lunedì 14 marzo 2011

La morte di un uomo dal punto di vista naturale ( 34° di Q. di L. )

E' normale che la morte susciti apprensione, dolore, paura, perché costituisce un fatto unico nella quotidianità del vivere. A volte però questo disagio sconfina in un rifiuto incondizionato della morte, che ci porta a considerarla qualcosa che accade fuori della norma generale della vita, qualcosa di inammissibile, che mai dovrebbe verificarsi: si evita di parlarne. Ma è bene allontanare ostinatamente il pensiero della morte?

La notizia a volte è brutale: "Ha un tumore, è pieno di metastasi, non c'è più speranza" . Sono situazioni dolorose, spesso indecifrabili. Ma forse il problema di fondo non è solo il tumore. La morte pone domande cui non sempre sappiamo rispondere, e la risposta più comune, più semplice è quella del medico, cioè della scienza: spiega le alterazioni, le modificazioni avvenute nel corpo; le cellule, il cuore, "spiega dove si è guastato il motore"...ma è una risposta che elude il vero problema; la scienza non dice "perché comunque" l'uomo muore. Si intuisce che l'incidente, la malattia non sono la causa prima della morte, ma solo le cause contingenti che la vita incontra per la sua naturale necessità di terminare. Perché ogni vita deve terminare. E' comune l'espressione "dura tutta la vita", e forse il concetto di durata può venirci in aiuto. Tutto ciò che ha una durata ha un inizio e una fine.

( continua )

Considerazioni sulla morte di un uomo ( 33° di Q. di L.)

Nei corsi di preparazione e negli incontri di supervisione ho ascoltato molte parole sul dolore e sulla morte. Poi il contatto coi malati. E' risultato subito chiaro che certi discorsi devono essere interiorizzati, scendere nell'intimo della riflessione: è necessario per me stesso e per poter accompagnare chi è vicino alla fine.

In queste righe voglio partecipare a chi legge, le riflessioni che via via ho maturato nel mio cammino di volontario, anche se la vastità dell'argomento mi dice in partenza quanto siano inadeguate. Si articolano in due ambiti distinti: le considerazioni sulla morte di un uomo prescindendo da ogni fede e ideologia (così spero di saper fare), e l'accompagnamento di un malato terminale vissuto dal volontario in un itinerario di Fede Cristiana.

Sono argomenti importanti e coinvolgenti e vorrei che la conversazione non assumesse toni cupi; è possibile pensare e parlare della morte con serenità e nella pace, anzi questo orientamento favorisce l'obiettività e la semplicità del discorso.

lunedì 7 marzo 2011

Mi ha lasciato ( 32° di Quaderno di Lavoro )

Nel torace un gorgoglio sordo, si espande, si riduce, accompagna il ritmo del respiro. Si affievolisce, si è ritirato lì tra cuore e gola. Il pulsare tenue di una vena sul collo. Immobile.

E' l'attimo più difficile, del dolore più intenso. L'aria, i suoni, le cose, tutto si è fermato, come in sospensione. Non vi è nulla da attendere né da ascoltare, eppure si attende e si ascolta; forse la voce dell'ultimo silenzio, qualche istante soltanto, forse è ancora vita.

Lo so che tante volte siamo stati zitti insieme, ma questo silenzio è irreale, è il mio amico che è diventato silenzio.

Il tempo mi richiama, divide i vivi dai morti. Ora il mio amico mi ha lasciato.
"...nelle tue mani, Signore..."

Nel ricordo la presenza di parenti, amici nella casa del morente; riaffiorano immagini, gesti, voci e silenzi, affetti che sembrano dilatarsi nella sofferenza, parole bisbigliate, sguardi di richiesta e di offerta di amore.

Ma anche altro ricordo. Parole oscene gridate alla Morte. Ho conosciuto chi l'ha offesa per pura superficialità, in un agire sconsiderato sul morente o sulla salma; è l'inutilità, la prevaricazione del "fare". Parole tristi, scenari sconvolgenti, votati al nulla. La Morte non chiede elogi, ma offenderla, prendersi gioco di lei è profanare un mistero.

venerdì 25 febbraio 2011

Il malato nel ricordo del volontario ( 31° di Q. di L.)

Non mi è mai riuscito di cogliere la storia del malato terminale nella sua complessità, neppure quando mi è parso di essermi avvicinato a lui ad animo aperto, con tutta la disponibilità di cui sono capace. E' vero che ciò è proprio di ogni relazione, ma a differenza di altre con il malato terminale può nascere l'impulso ad una comprensione più profonda per il vissuto che si condivide: ogni parola, ogni atto, persino il silenzio e il sorriso scandiscono un tempo di attesa che rimanda al mistero. Si imprimono nella memoria immagini e storie che si vorrebbero conservare intatte, per poterle assumere ed amare nel loro valore.

Un desiderio non appagato dunque, che perdura. Mi accade di proseguire i discorsi lasciati in sospeso o interrotti dalla morte, cercando di penetrare le parole che ho ascoltato e quanto il malato mi ha consegnato di sé oltre le parole.

Così anche dopo il distacco indago il vissuto trascorso insieme, alla ricerca di una comprensione mai piena, che trova quiete nel bene che ancora ci lega. Mentre il malato è in vita può accadere di entrare in tale sintonia da temere il "dopo", quando non vi sarà più la sua presenza. Domanda spontanea ma intempestiva, cui è prematuro dare risposta perché la relazione col malato viene vissuta in un modificarsi continuo, imprevedibile allo stesso volontario.

Quando gli eventi affievoliscono e spengono la vivacità intellettuale e spirituale, punto di intesa nella comprensione affettuosa, diventa difficile sopportare il presente accanto al ricordo così vicino nel tempo, e si desidera la fine, il silenzio.

L'accompagnamento del malato terminale può aprire scenari inattesi: una visione di sconforto oppure, oltre i momenti della sofferenza, un modo fiducioso di riaccostarsi alla vita e alla morte, al ricordo di chi ci ha lasciati, ed anche un nuovo modo di accogliere stessi.

sabato 19 febbraio 2011

RICORDARE

Il verbo l'ho voluto all'infinito, mi pare esprima meglio i suoi mille volti: di liberazione e di rimpianto, di un vestito lussuoso e una giacca rappezzata, di un bambino solo, di una spiaggia e un mare scintillanti, di occhi che sorridono e che piangono, di rifiuto e di accoglienza,...e poi..."infinito" è parola che ogni volta mi impone stupore. Non c'è orizzonte, nulla inizia o finisce, non so di luce, di buio o di tempo, non un riferimento, una presenza. "Infinito", idea quasi sensazione che ho dentro, che non approda però alla comprensione come le altre idee delle cose, delle persone o di concetti pur indefiniti, il bello, la musica,...è altro. Eppure mi è sufficiente l'idea per accorgermi che i ricordi della vita sono anche "brevi ricordi di infinito".

Non so rivedere tutto il mio passato, soltanto alcuni attimi o "tempi" della mia esperienza si sono fissati in me. Come l'immagine di una fotografia il ricordo mi riporta a quell'istante fermato, rimasto unico, immodificabile. Impossibile replicarne il vissuto, sarebbe comunque un atto nuovo.

Mi è capitato di ascoltare i ricordi degli altri. A volte mi sono raffigurato un luogo indefinito, scaffali stipati di pacchi e scatole. Un uomo va, gira attorno lo sguardo, punta una direzione, afferra e si allontana; poi siede, ne soffia la polvere, scoperchia o spacchetta,....racconta. Terminato, riavvolge o ricopre, torna sui suoi passi e ripone. Il posto è sempre là, nulla si è perso, nulla si è aggiunto.

E qui nascono a mio avviso una domanda e il tentativo di una riflessione:
" Ha senso essere semplici custodi del passato ?"

Ricordare è importante nel vissuto di ognuno, chiede ascolto attento di sé, ascolto e rispetto affettuoso per la persona che racconta. Ma chi può essere certo che "nulla si sia perso o aggiunto" nel pensiero e nel cuore dell'altro, stabilire che l'altro sia "semplice custode del passato"?

Nessuna cattedra, nessun giudizio, piuttosto una mano tesa se qualcuno è in affanno, forse in modo discreto e prudente si può stargli accanto, col silenzio o con parole sobrie, poche,non gravose.

Oltre la relazione con gli altri....

...il mio passato appartiene a tutto il mio essere, all'adesso del mio tempo, anche i ricordi mi costituiscono; li interrogo e li ridiscuto, rispettando le coordinate del tempo trascorso, e li raffronto con le novità del mondo, della mia vita che cambia nell'età "alta", incerta, eppure non senza futuro.

Se sa di non appartenenza come un ramo reciso, di inutilità, il "deposito dei ricordi" tende a intristirsi, anche i ricordi belli appassiscono, ma se il passato è parte di me allora è tempo vivo, e il ricordo aggiunge qualcosa al "breve infinito" del mio quotidiano. Vorrei accadesse a tutti, aggiungere almeno un filo di speranza e di pace.

Colloquiare coi ricordi: scuola da frequentare tutta la vita, sempre da allievo.

venerdì 28 gennaio 2011

L'accompagnamento più ambito ( 30° di Q. di L. )

L'accompagnamento si è compiuto, e viene spontaneo ripensarne la storia, luci e ombre. Può succedere di indugiare più a lungo sulle emozioni forti conosciute e riviverle con un certo senso di gratificazione. Chiarire a sé stessi le capacità e i limiti propri, le possibili reazioni del malato può essere utile ed affinare "l'arte" e la saggezza dell'accompagnamento, fa parte del percorso personale di maturazione e di autocontrollo che offre il volontario domiciliare.

Mi sembra tuttavia importante non assolutizzare la propria esperienza, tanto più se maturata in un clima di insolita complessità; ne nascerebbe una sottile propensione verso "il caso eccezionale", per il quale soltanto varrebbe la pena di spendersi.

Le situazioni particolarmente gravi attraggono perché chiedono forte senso di responsabilità, di partecipazione e insieme capacità di distacco, e possono diventare motivo di confronto, a volte di autoaffermazione.

Resta tuttavia un possibile fraintendimento di valori, quello di sottovalutare l'importanza degli atti consueti, ripetitivi, delle situazioni comuni nel rapporto della quotidianità.

Tutto l'accompagnamento può essere pensato come fedeltà costante a sostenere nell'ordinario l'eventualità che la malattia impone, innamorandosi delle cose umili del momento: il servizio reso al familiare, la battuta allegra, il silenzio condiviso per un'inquietudine che assilla o un sorriso appena accennato.

Le piccole cose avviano alle grandi, ma nell'apparente penombra delle prime è più facile l'umiltà e il silenzio nell'ascolto dell'amore, della vita: cioè del bene che gratuitamente scambiamo e respiriamo con tutti, anche con chi a volte non se ne accorge.

Condividere la sofferenza e la fine di un uomo aiuta a comprendere come l'amore sia l'unico riferimento sempre possibile di fronte all'impossibile: è il senso delle parole che spesso ascoltiamo dai parenti in lutto.

Di questo amore gratuito mi sembra espressione semplice e luminosa che il volontario non scelga il malato con cui iniziare l'ultimo tratto del cammino.

venerdì 21 gennaio 2011

Il letto accanto a quello del "mio" malato ( 29° di Q. di L. )

Ospedale San Paolo. Il letto accanto a quello del "mio" malato ospita un vecchio. Ci ha visti parlare, Filippo e io, e mi chiede di tenergli la mano. Non è malato oncologico e non mi parla del suo male, soltanto mi dice che è vicino alla fine e racconta l'importanza che la Fede ha per lui. Argomenti forti, mirati, ma si stanca; la voce si fa fioca e non capisco. Con un dito alza la mascherina dell'ossigeno, mentre io avvicino l'orecchio: " Nessuno possiede niente" .

Tra una parola e l'altra la distanza di un respiro breve. Riposiziona la maschera. Si scopre povero nella morte, una povertà benedetta che fa spazio al Signore che viene.

Vorrei abbracciarlo. Dall'ultima soglia del suo tempo parole vere, di intelligenza spirituale, di pacificazione e di aiuto a chi resta.

Caro, sconosciuto vecchio malato, forse non avverti in te la ricchezza che porti, mentre sino all'ultimo assolvi tra i fratelli la tua vocazione cristiana.

sabato 8 gennaio 2011

La solitudine del morente ( 28° di Q. di L.)

Da tempo ho scritto la riflessione "Lasciarsi conoscere", una pagina che sin da allora sentivo incompleta. La rileggo e la riprendo nella speranza di saper esprimere ciò che di importante per me non avevo saputo dire. Importante per la prospettiva spirituale in cui, da volontario ,vivo l'accompagnamento concretamente fino al suo esito.

La solitudine obbligata del morente svela la povertà costitutiva dell'uomo, una solitudine che si proietta nell'oltre, sconosciuta e inquietante. Il volontario cammina col malato sino al limite della vita che si spegne: oltre la soglia il malato è solo. Anche la presenza di parenti e amici non può nulla: nell'attimo designato, sempre incerto, il suo corpo muta da persona a cosa, così l'uomo oltrepassa la morte solo con sé stesso.

Questa fondamentale esperienza della vita esige un senso che ciascuno di noi vi legge dentro, secondo le sue più profonde convinzioni. La prospettiva della fede cristiana non sovverte l'evidenza, che resta umanamente incomprensibile e sconvolgente, ma la pone nella luce misteriosa della resurrezione di Gesù Cristo.

Le sofferenze del malato e la pena condivisa dal volontario sono "consolate" dalla certezza che la morte non chiude la vita e che nell'intimità del suo spirito nessuno è solo nell'ora del distacco.

Anche il cristiano è spettatore della solitudine del morente, ma crede che la vita non viene meno e si trasfigura.


Giov. (2,29-3,6) "Ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è".