venerdì 25 febbraio 2011

Il malato nel ricordo del volontario ( 31° di Q. di L.)

Non mi è mai riuscito di cogliere la storia del malato terminale nella sua complessità, neppure quando mi è parso di essermi avvicinato a lui ad animo aperto, con tutta la disponibilità di cui sono capace. E' vero che ciò è proprio di ogni relazione, ma a differenza di altre con il malato terminale può nascere l'impulso ad una comprensione più profonda per il vissuto che si condivide: ogni parola, ogni atto, persino il silenzio e il sorriso scandiscono un tempo di attesa che rimanda al mistero. Si imprimono nella memoria immagini e storie che si vorrebbero conservare intatte, per poterle assumere ed amare nel loro valore.

Un desiderio non appagato dunque, che perdura. Mi accade di proseguire i discorsi lasciati in sospeso o interrotti dalla morte, cercando di penetrare le parole che ho ascoltato e quanto il malato mi ha consegnato di sé oltre le parole.

Così anche dopo il distacco indago il vissuto trascorso insieme, alla ricerca di una comprensione mai piena, che trova quiete nel bene che ancora ci lega. Mentre il malato è in vita può accadere di entrare in tale sintonia da temere il "dopo", quando non vi sarà più la sua presenza. Domanda spontanea ma intempestiva, cui è prematuro dare risposta perché la relazione col malato viene vissuta in un modificarsi continuo, imprevedibile allo stesso volontario.

Quando gli eventi affievoliscono e spengono la vivacità intellettuale e spirituale, punto di intesa nella comprensione affettuosa, diventa difficile sopportare il presente accanto al ricordo così vicino nel tempo, e si desidera la fine, il silenzio.

L'accompagnamento del malato terminale può aprire scenari inattesi: una visione di sconforto oppure, oltre i momenti della sofferenza, un modo fiducioso di riaccostarsi alla vita e alla morte, al ricordo di chi ci ha lasciati, ed anche un nuovo modo di accogliere stessi.

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