martedì 28 dicembre 2010

La solitudine del malato terminale (27° di Q. di L.)

Il persistere e l'aggravarsi della malattia inducono un senso di disorientamento esistenziale. Il malato avverte l'urgenza di partecipare agli altri l'incomprensibilità, lo stupore e l'angoscia della sua situazione, prima inimmaginabile, ma subito gli è chiaro che non troverà parole adeguate; smisurato il divario tra ogni possibile espressione e la realtà che vive.

" Il male e tutto quello che ho dentro, non riesco a dirlo". Non può esprimere il suo dolore: non c'è misura, non concetto cui potersi riferire, il dolore è davvero inesprimibile. Questa comunicazione negata può sfociare nel silenzio, nell'isolamento; poi nella solitudine in mancanza di possibili riferimenti che trascendano la situazione presente, ad esempio la fede religiosa.

La solitudine va oltre l'isolamento; estranea ad ogni speranza e indifferente all'amore respinge ogni rapporto; una disperazione mesta, è la scelta di "lasciarsi andare". Spesso il paziente manifesta questo suo stato d'animo nella postura che assume: il volto rivolto alla parete, dà di spalle a chi lo assiste. Un silenzio assillante, il volontario vorrebbe intuire l'esperienza della desolazione che gli sta di fronte. Nella mente del malato forse non vi sono volti né cose, solo un abbandono sconfinato; forse la sua stessa identità confusa in un dolore incomprensibile, disperato.

Talvolta ho tentato di confidargli in modo affettuoso ciò che io stesso provavo nella impossibilità della condivisione. E' il limite che ci accomuna, eppure nella mia esperienza, insuperabile.

lunedì 20 dicembre 2010

Pensieri di Natale

Siamo vicini al Natale, mi piace molto questa riflessione di Barth, è bella e mi piace accostarla all'annuncio degli Angeli ai Pastori.

" Finché era più giovane, l'uomo poteva ancora immaginarsi di essere lui stesso ad andare incontro al suo Signore. L'età deve diventare per lui occasione per scoprire che invece è il Signore che gli viene incontro per assumere il suo destino. "

mercoledì 8 dicembre 2010

Lasciarsi conoscere ( 26° di Q. di Lavoro)

Quando il volontario avvicina il paziente nella fase avanzata della malattia, fa esperienza di una modalità insolita dell'accompagnamento; è lo stadio in cui le forze sono quasi esaurite, la parola affiora a fatica e momenti di lucidità si alternano a spazi di assenza.

Questo particolare stato sollecita ad usare ogni attenzione al limite del possibile, che allevii il dolore e offra la consolazione di una presenza amica, anche se sconosciuta. Ma al di là del "prendersi cura", che già è ascolto, il pensiero che il vero "dramma" del distacco si compie nella solitudine di questo silenzio obbligato, spinge il volontario a desiderare intensamente di poter cogliere una parola, comprenderla per restituirne un'altra nella quiete, che rincuori.

Ricordo di aver scritto che il silenzio "ospita sempre un messaggio e un segreto:ciò che vorresti donare e che incosapevolmente esprimi con tutto te stesso; ciò che del tuo silenzio il malato porterà con sé" (Scelgo il mio silenzio). E' quanto accade ora.

L'ascolto del volontario sembra trovarsi in un vicolo cieco, ma non altrettanto avviene per il malato, o almeno non sempre, e può sfuggire un aspetto importante presente nella sua prospettiva: il bisogno di conoscere chi gli sta accanto, un'urgenza che cresce in rapporto alla gravità dello stato in cui sa di trovarsi. E' persona che non ho mai incontrato prima, perciò il suo sguardo domanda "Chi sei, perché qui?", e lui stesso risponde al mio posto.

C'è una comprensione possibile dell'animo che si esprime nel volto di un uomo anche nel silenzio; di tanto in tanto il malato mi "spia", immobile, in una consapevolezza mai definita. In questo incontro di sguardi, in pochi attimi, si riassume l'amore dell'accompagnamento.

Lasciarsi conoscere significa privilegiare il malato nel rapporto secondo le forze che ancora gli restano. Non si tratta di "rinunciare" all'ascolto, ma in certo senso di accettare qualche istante o pochi minuti di "sospensione"; non di prestare ascolto ma di prestare me stesso, consegnandomi alla sua iniziativa. Quando la via del colloquio è impraticabile, rimane la presenza accanto all'altro nel silenzio: unica a dire di me ciò che io non posso o non saprei dire. Nel silenzio accompagno il malato e ne sopporto lo sguardo, ora fisso, a volte fugace: ora di sfinimento, o inquieto o rassegnato, ora di pace, senza possibilità di replica; lasciarmi conoscere, accettare di essere "visto" come il morente mi vede. Può turbare. E' presenza semplice e affettuosa che spontaneamente vela nel mio sguardo ogni autoaffermazione presente nel comune confronto con l'altro.

"Lasciarsi guardare" non è disimpegno, ma consegna consapevole della propria immagine. E' tutto ciò che posso fare per lui. Questo atteggiamento affina l'ascolto ed è esperienza che mi aiuterà ad incontrare meglio l'altro.

Il cristiano vive nel tempo che passa la sofferenza del momento e la certezza dell'eterno, vive questo accompagnamento nella preghiera semplice, che abbraccia con fiducia il mistero della vita e della morte.

sabato 27 novembre 2010

L'attesa ( Luca ) (25° di Q. di Lavoro )

Caro Luigi,

...Non so se mi sarebbe facile "accettare comunque, anche ciò che si annuncia negativo", perché accettare è una parola grande, sinonimo di una grande fede. E allora io forse rimuovo la questione: per così dire " tengo gli occhi bassi ", guardo solo se e come posso "essere di sostegno agli altri, nella ricerca continua del limite tra discrezione, prudenza e coraggio", sperando che si apra uno spiraglio che me ne dia la possibilità. E qualche volta avviene il miracolo ! Magari uno "spiraglino" davvero modesto, ma è pur sempre un miracolo.

domenica 21 novembre 2010

L'attesa ( 24° di Q. di L. )

L'attesa ci accompagna a intervalli di tempo, dalla nascita fino a quando la vita si conclude. Abbiamo atteso l'ora dei primi pasti, l'ora del gioco, una festa, un incontro, l'esito degli studi...una realtà non solo materiale che ci ha coinvolti e ancora non conoscevamo; attesa che si riveste della speranza o del timore di ognuno.

Eppure dopo tanta esperienza è difficile vivere l'attesa: può procurare un senso di spaesamento, di sospensione, quasi di estraneità o di assenza nello scorrere del quotidiano, un continuo rimando, il rinvio costante di scelte, di prese di posizione.

Il contesto dell'accompagnamento del malato terminale mette in evidenza aspetti insoliti. Il malato ricorda quando, ancora sano, in ogni attesa aveva la possibilità di agire, di tentare qualcosa per indirizzare il corso degli eventi. Ora questa libertà gli è negata. Anche i parenti spesso vivono nell'ansia di notizie temute e sempre ignote nel loro concreto manifestarsi.

Il volontario condivide questi momenti, ma meno coinvolto direttamente, coglie con maggior evidenza come nel corso della malattia l'attesa non rappresenti una situazione eccezionale, ma sia realtà ricorrente, vita autentica che si fonde con le "solite" cose, che si iscrive nella "normalità" del tempo presente.

Il modo in cui viviamo l'attesa rivela noi stessi, chi siamo: lo constato osservando il malato, i familiari, capisco che avviene inconsapevolmente, e che anch'io ne sono in qualche misura coinvolto. Perciò penso l'attesa come tempo privilegiato di colloquio, importante, ci si può conoscere con più immediatezza e profondità, si comunica anche col silenzio ciò che nei giorni della salute si taceva, ma non con argomenti di "pensiero", semplicemente con il modo di vivere questa realtà cui non è possibile sfuggire.

La differenza della situazione in cui mi trovo rispetto a quella del malato, dei familiari, è tale che a volte mi fa sentire a disagio, anche se mi pare di essere loro sinceramente vicino. Soffro la loro angoscia e insieme capisco che per me volontario, l'attesa rappresenta un periodo di attività vigile, vissuta con particolare attenzione. Sono disponibile ad accettare "comunque" anche ciò che si annuncia negativo; accettarlo in prima persona per essere di sostegno ad altri, nella ricerca continua del limite tra discrezione, prudenza e coraggio del dire, e nel rispetto dovuto alla necessaria "solitudine" di ogni persona.

La fede cristiana ricorda che ogni momento della vita è tempo di Dio: allora anche l'attesa, tempo di adesione fiduciosa, di disponibilità fedele alla Parola; di certezza della fedeltà di Dio. Questa fede mi indica il modo di vivere l'attesa, anche quando non fosse opportuno parlarne; a fianco del malato, nel silenzio, mentre gli prendo la mano.

venerdì 19 novembre 2010

Gratificazione ( 23° di Q. di L. )

Mi soffermo sull'importanza che la gratificazione assume agli occhi dei malati e dei loro cari. Durante l'accompagnamento serbo particolare attenzione a ciò che mi colpisce positivamente, gli atteggiamenti delle persone, i rapporti familiari e le cose, la conduzione nel succedersi degli eventi, e in generale il modo in cui sono coinvolti il malato e chi gli è vicino. Nel momento in cui ciò accade o a tempo debito, sarà importante far notare il mio apprezzamento.

Portare un po' di incoraggiamento alle persone ormai avvezze soltanto ad ascoltare "sentenze", a ubbidire a prescrizioni autorevoli, a ricevere da tutti consigli, ad essere più consolate che stimate, apprezzare ciò che in condizioni difficili è loro sfuggito, spesso rappresenta un aiuto concreto, stimolante.

L'ammirazione sincera e obiettivamente motivata non ammette finzioni, è parola pronunciata come le altre, senza enfasi né sottolineature e giunge quasi sempre inattesa; lo stupore aiuta a capire che qualcosa di bello è possibile e presente anche nei giorni della sofferenza, addita uno spazio di libertà e di scelta inviolabile anche dalla malattia. Forse è l'occasione di rincuorarsi, per continuare un po' meno soli.

martedì 2 novembre 2010

Una famiglia sul sentiero del tempo

Cecco da molti anni, Cecilia appena due mesi. Si sapeva ma il fatto irrompe, non chiede consenso, conduce in ogni suo svolgersi. Le stanze anonime del grande ospedale, lunghissimi i corridoi, i trasferimenti da un padiglione all'altro, le indagini di laboratorio divenute ormai insopportabili; le condizioni non solo fisiche incontrollate, eppure inatteso il riaffiorare breve ora del pensiero che comprende, ora della parola che commenta e chiede, che prega. E' scivolata via in un giorno e una notte. Sofferenza, sì, ma di lei nell'attesa dell'Incontro trattengo la leggerezza limpida dell'animo, la quiete intatta di chi si affida..."Nulla ti turbi.." .

In cielo avrà incontrato anche il nostro fratellino che hanno conosciuto mamma e papà soltanto, il primo di sei figli. Io sono l'ultimo.

Mariuccia è suora al "Cenacolo" di Torino, ogni tanto passa a Milano per i suoi impegni di apostolato, ci si vede, ci si racconta, si condivide.

Vicino,appena nella scala accanto alla mia abita Agostino, ora solo, e con lui capita con maggior frequenza un incontro, e parlare e coinvolgersi nel quotidiano. A volte tra noi, possono non collimare criteri, modalità o sensibilità personali di approccio a un problema o ad altra realtà, il tracciato della vita è diverso per ognuno, ma avere un fratello significa ricongiungersi nel ricordo concreto temporale del papà e della mamma nel loro stesso essere così come sono vissuti, come sono ancora ai nostri occhi, nella memoria; essi ci hanno lasciato unità nella visione di fondo sull'uomo e sul mondo...e sul tempo di Dio.

Tutto questo è bellissimo, sono contento di avere un fratello, proprio il fratello che ho (non metto in disparte Mariuccia ....ma non abita nella scala accanto).

Ieri a metà pomeriggio sono andato nella chiesa della mia parrocchia. Chiesa vuota, silenziosa. Nel corridoio centrale qualche passo e mi siedo su una panca. Qualcuno entra, forse si è fermato, poi passi discreti fino a dove mi trovo. "Ago ! qua !" e con la mano picchietto la panca.

E' bello. Due vecchi vicini e il lumino rosso all'altare nella chiesa vuota, in silenzio pochi minuti; poi, sempre seduti a scambiarci qualche parola.

Usciamo insieme, facciamo spesa all'Esselunga.

sabato 23 ottobre 2010

L'assenza dovuta ( 22° di Q. di L. )

Noi tutti nella consuetudine della vita, appaghiamo il bisogno di stare con gli altri, anche con le persone che non sono di casa. Per il malato terminale non è così: costretto a rimanere nel suo appartamento o nel suo letto, non può disporre liberamente di incontri e di colloqui privati. Questa realtà sembra spesso incompresa, può sfuggire l'importanza di serbare al malato uno spazio di tempo (e un luogo) da gestire autonomamente in piena libertà e riservatezza. La malattia non annulla in lui il piacere dei rapporti sociali, né il bisogno di sentire che qualcuno gli rivolga la parola, lo ascolti, chieda un suo parere; non cancella il diritto di tenere per sé un segreto o di confidarlo soltanto a chi vuole; il tempo della segregazione cui la malattia lo obbliga acuisce l'urgenza di un rapporto di amicizia che resti riservato. Ci si avvede con chiarezza di ciò quando il malato si intrattiene da solo con una persona estranea alla sfera familiare, o con chi mantiene un rapporto costante vincolato alla sua situazione, medici, infermieri, volontari.

Quasi sempre il malato ha difficoltà ad esprimere questa esigenza ai parenti, teme che la domanda di riservatezza li offenda, venga recepita come un affronto, un'esclusione ingiusta: dubbio non del tutto infondato.

"Essere sempre presenti", "fare compagnia", nell'amore dei parenti può venire avvertito come dovere inderogabile o un diritto assoluto, tuttavia questa dedizione affettuosa se non concede al malato possibili intervalli di convivenza scelta liberamente, rischia di mutarsi in un controllo costante, di accrescere in lui l'ansia che ha già dentro anziché quietarla.

"Vorrei parlarti di quello che mi succede, perché lei è buona, ma su alcune cose la pensiamo in modo diverso..". E' entrata. Si siede vicino, premurosissima; è efficiente, disponibile alla conversazione col volontario, onnipresente.

Il malato vorrebbe che anche la persona più intima intuisse questa sua necessità, ne comprendesse l'importanza riservandogli momenti di "assenza dovuta". Nessuno è in grado di dare tutto al malato, anche la dedizione più affettuosa, anche il dolore possono soffocare la libertà di chi si ama.

Queste riflessioni riguardano ovviamente anche il volontario attento a condurre "l'accompagnamento" con presenza sollecita, ma pronto a farsi in disparte nel momento opportuno.

E' un aspetto che affiora frequentando il malato, ma che per i familiari rimane spesso un messaggio difficile da recepire.

domenica 17 ottobre 2010

Il segreto (21° di Q. di L.)

Lungo i giorni dell'accompagnamento il malato può sentire il bisogno di confidarsi: non vuole rivivere nella solitudine la fatica della sua storia, è un moto spontaneo che gli procura grande sollievo, una liberazione, soprattutto quando, nonostante le persone vicine, è solo a conoscere nel riserbo il suo passato.

Confida le parole intime della sua vita, procede con cautela, a intervalli. Una parola e un attimo lungo di sosta muta, di ascolto del tuo silenzio e del tuo volto, gli interessa sapere chi sei, se lo capisci, perché stai a sentirlo, se lo giudichi o se gli vuoi bene; sapere se stai facendo con lui la sua strada...se è sicuro con te. Allora l'animo si libera, a volte fino a commuoversi e fino alla quiete.

E' la gioia reciproca di una nuova amicizia, la sensazione di essere più liberi, e il malato può dirti "E' come se ci fossimo conosciuti da sempre". Un uomo ti ha aperto la sua storia, conosci una sofferenza nascosta, un dolore incompreso, la sua speranza. Non tradire la riservatezza che si attendeva da te.

venerdì 15 ottobre 2010

Domanda inattesa

E mi chiedi come mai, dopo anni di attività, mi occupo ancora dei malati terminali? Precisiamo innanzi tutto che il mio impegno si è molto ridimensionato in ragione dell'autonomia che l'età mi concede.

La domanda è antica, ho azzardato risposte in successione di tempo e di esperienza, spesso con nuovi spunti, eppure tutte sono rimaste incompiute. In ognuna un po' di verità, ma rimaneva spazio da colmare.

Sorge spontaneo l'interesse a comprendere il "perché" di certe decisioni prima che ti accinga ad attuarle, tuttavia vi sono circostanze e avvenimenti che ne consentono l'incontro profondo soltanto a patto di viverli, di averli vissuti e custoditi nell'intimo dell'ascolto segreto. Comprensione sempre limitata si intende, perché gioia e dolore, vita e morte rimangono il mistero che sono.

La tua domanda mi accompagna dall'inizio del mio volontariato come indicazione di un sentiero, alla ricerca di ciò che già desideravo senza conoscerlo; poi, durante il cammino è avvenuto tra il sentiero e me una specie di identificazione, io che passo dopo passo incontro le novità del tragitto, e il sentiero che ha senso soltanto se qualcuno lo percorre, se io lo frequento, se cammino e mi soffermo stupito.

Oggi mi sembra più semplice di allora risponderti: "perché amo la vita", parole sciupate in mille rivoli dirai, divenute banali, ma non nel loro contenuto, esse esigono una verifica di significato. E' incantevole pensare che la vita è meravigliosa (e spesso lo è), ma non posso ignorare la sofferenza, la malattia, il tempo che chiude.

- "perché amo la vita", in queste parole può trovare soddisfazione la domanda che mi hai posto all'inizio, però rispondi prima a quest'altra:

"Come pensi, come ti coinvolgono l'amore e la vita, ogni forma,ogni tempo della vita.?"

giovedì 7 ottobre 2010

Disunione in famiglia (20° di Q. di L.)

E' esperienza consueta conoscere famiglie aperte alla collaborazione tra le persone che le compongono, tutte singolarmente dedite alla cura del malato, pur nella disponibilità concessa dai necessari impegni personali.

Talvolta accade invece di trovarsi in contesti di segno opposto, ed assistere a comportamenti che aggravano la sofferenza del malato: convivenze difficili, voci alterate, parole dure, incomprensioni che neppure la malattia sopisce. Nessun ascolto della sofferenza, persone lontane tra loro e dal malato.

Pur non interferendo nelle conversazioni che si ascoltano, si tenta di alleggerire la tensione distraendo il malato, facendo spazio a un velo di ironia, a una parola di quiete, a un sorriso. In circostanze simili tuttavia, mi pare che la presenza silenziosa del volontario assuma importanza fondamentale. Un silenzio disponibile e forte, che non accetta di essere contaminato dalle liti. Una presenza silenziosa ostinata che vuole porsi ad argine del malato,di fronte a un male che aggrava talvolta drammaticamente il dolore di queste vite.

Impotente silenzio di dissenso, che potrà essere testimonianza di comprensione e di amore nella memoria di chi resta.

lunedì 27 settembre 2010

C o p i a t u r a

Rileggo e mi addentro nel testo in un silenzio diverso da quello del tempo in cui l'ho scritto. E' altro anche l'ascolto, meno emozioni, la compiutezza circoscritta dell'episodio singolo si ripete, forme e modi diversi. Una umanità ormai assente, sconosciuta, soltanto a pochi la memoria di un volto, l'eco di una vita, di una relazione...un affetto, forse un sorriso. Tutto è finito eppure tutto è presente, tutto continua, c'è stupore, contemplazione. E' il nuovo ascolto.
Vorrei che i visitatori "anonimi" di questo blog spiassero tra le righe del Quaderno di Lavoro un costante afflato alla vita, anche se incontrano con frequenza parole pesanti come sofferenza, terminale, morte...inevitabili nello specifico di questo volontariato. Parole che non cancello e tuttavia non vorrei fossero causa di fraintendimento, di visione impropria dello spirito in cui ho tentato di muovermi trovandomi a tu per tu coi malati e con le loro famiglie.
Da qui nasce il mio desiderio di fare chiarezza e affermare in modo esplicito che il Quaderno di Lavoro è uno scritto dedicato alla vita.
La Morte è qualcosa di serio non di tragico, qualcosa di serio come lo è la Vita. Questa anzi è cosa "veramente seria", seria e importante indistintamente sino al suo esaurirsi. Persino nel quotidiano la ripetizione dell'ordinario è "cosa seria", anche quando sembra che nulla di importante o di eccezionale accada: ogni lembo di vissuto è tempo che modifica la vita, in esso diventiamo ciò che siamo.
Accanto al malato e al morente il volontario serba il suo amore e la sua attenzione alla persona viva, non alla morte.
Da "Servabo" di Luigi Pintor.
- "..(come la vecchiaia)... la malattia non essendo riconosciuta come forma della vita, diventa orribilmente dolorosa e incurabile."
Da "Lettere dal carcere" di L.Bonhoeffer.
- "Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita: e non solamente nel morire: nella salute e nella forza, e non solamente nella sofferenza...La ragione di tutto questo sta nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo."

sabato 21 agosto 2010

Contributo alle riflessioni di Luca. (Continua 19° di Q. di L.)

Può essere utile riflettere sulle nostre esperienze vissute. Quando ci accostiamo al ricordo di una persona che ci ha lasciato, nella memoria ne fissiamo il volto, lo sguardo, quasi a frugare con speranza nella sua anima, nel suo spirito, in definitiva nel suo amore per raccogliere e trattenere in noi ogni bellezza che vi troviamo.
Svanisce l'interesse per ciò che ha fatto, per ciò che ha lasciato. Il bisogno di vita che ci portiamo dentro e l'ansia di poter rimanere ancora in comunione di amore, ci conduce inevitabilmente alla domanda profonda, essenziale: "chi era?..." "tu chi sei stato?"; in effetti la vita di ognuno, fino al suo spegnersi, è un intrecciarsi continuo con la vita degli altri, uno scambio reciproco di valori e di sentimenti. Mi sembra molto importante partecipare al malato terminale queste riflessioni: dal suo isolamento può rendersi conto che anche a lui, come al volontario, è concesso il privilegio di potersi occupare degli altri. Vivere "bene" il presente, come può, nella burrasca dei suoi giorni, anche per il malato terminale è dunque un atto di amore e di solidarietà verso le persone che lascia, un atto che lui soltanto può compiere. Dal nostro ricordo gli altri potranno trarre un aiuto concreto di fiducia nella vita, un ricordo di pace e di benedizione.
Forse "un malato perfettamente consapevole della sua fine" e sensibile a realtà non solo materiali, può trovare aiuto in queste riflessioni, e forse... anche il malato che invoca la morte.
L'altro argomento che riferisci riguarda un certo modo di avvicinarsi alla fine. La morte arriva dall'esterno, estranea al nostro corpo, un'entità che tenderà l'agguato, "tra poco mi verrà addosso la morte e ho paura" ha detto Mario ( Parlami della tua morte). E' la personificazione dell'idea della morte; questo modo di vivere il tempo della propria malattia, attinge all'immaginario popolare della tradizione nutrita da racconti, films e dall'arte stessa. Il malato che sperimenta queste rappresentazioni fantastiche ne viene interiormente turbato, vive emozioni negative, estranee alla realtà; realtà che potrebbe essere affrontata con minor angoscia, se semplicemente potesse liberarsi da questi fantasmi. Ritengo perciò inopportuno pronunciare la parola morte in simili contesti, particolarmente quando il paziente insiste nell'usarla.
Con una precisazione: tacere la parola morte non equivale negare al paziente di parlare della morte, o della sua morte.
Ti ringrazio ancora per questo scambio di idee sempre utile.
Un caro sauto.

giovedì 12 agosto 2010

Contributo alle riflessioni di Luca (19° di Q. di L.)

Caro Luca,


la tua piacevole ironia è un richiamo a non prenderci troppo sul serio approfondendo argomenti più grandi di noi. Ogni prospettiva, i dubbi e le perplessità, le interpretazioni personali ci stimolano reciprocamente a ripensare ciò che ci sembrava forse aver "risolto", per tentarne una nuova comprensione. Ti ringrazio di avermi inviato le due e-mail del 14 settembre e del 3 ottobre, e mi permetto risponderti in questo quaderno. Associo i temi che hai esposto per facilitarmi il compito.


Quanto alla necessità che accanto al malato terminale "perfettamente consapevole della sua fine imminente" vi sia la presenza di "un direttore spirituale, un santo, un profeta" (battuta a parte), mi sembra evidente che di necessario ed importante ci sia soltanto la tua, semplicemente la tua presenza, così come sei; a te infatti il malato si è rivolto. E poi, nella misura del possibile, mi sembra bello in compagnia del malato dimenticare i reciproci ruoli.


Introdurrei una riflessione sulla opportunità di prevedere questa domanda e prepararsi, sempre che il caso lo consenta, perché ne abbiamo tempo e modo mentre il malato progressivamene si avvicina a tale presa di coscienza. Distinguere in quale fase della malattia il paziente apre il dialogo sulla propria morte, (all'atto della comunicazione della diagnosi, dopo mesi o anni di sofferenza, oppure nella effettiva prossimità della fine) e godere della sua familiarità, favorisce l'intuizione del vissuto e delle attese; il colloquio può aprirsi agli aspetti più consoni alla singola persona ( ad esempio al tema della religiosità nella varietà delle confessioni di fede) ed ai problemi concreti attinenti la situazione attuale.
Quando il malato "consapevole" mi intrattiene sulla imminenza della propria morte, in pratica mi chiede di acconsentire a volergli bene sino a vivere insieme a lui la paura dell'abbandono che presagisce. Non sviare il discorso è già conferma delle sue stesse parole, è aiutare il malato ad avvicinarsi alla verità senza abbandonarlo, e se la relazione con lui è giunta ad una relazione particolarmente intensa, il colloquio non può che sfociare, oltre l'ascolto, nel mettere in comune ciò che ognuno di noi è e sente nel profondo di sé. Con sincerità rispettosa e prudente, con l'attenzione costante a non soverchiare la sua debolezza o l'impreparazione sia pure momentanea, in nome della verità (connessa al suo stato).
Il malato che mi parla della sua morte subito mi coinvolge, tento di vivere con lui l'estrema fragilità del tempo come lui la sente. Quando le sue parole mi colgono in un momento inatteso, allora la sorpresa e l'emozione sembrano sigillare la risposta. L'insidia sta nel riflesso spontaneo di rispondere in fretta, eppure anche una pausa di silenzio può essere risposta che acconsente. Accanto al letto del malato i servizi più marginali o il contatto fisico esprimono amore e condivisione, e favoriscono la scelta sempre difficile delle parole appropriate, "pensi che riguardi soltanto te?" "E' un periodo importante per te, ma lo è pure per i tuoi familiari..."
( segue )

sabato 7 agosto 2010

La purezza delle posizioni assolute

Poche parole tratte dal libro "come mi batte forte il tuo cuore" di Benedetta Tobagi, offrono l'opportunità di nuovi spunti di riflessione su un argomento similare a quello trattato ieri su questo blog. A mio avviso ne amplia l'orizzonte e introduce situazioni e contesti a noi più vicini.
"....La purezza delle posizioni assolute esercita un forte potere di seduzione, ma è una seduzione maligna. La purezza spesso non è altro che fuga, rifiuto di fare i conti con la complessità e i limiti della realtà.....
E' infantile dimenticare che, per agire, bisogna sempre "sporcarsi le mani" con la realtà: la cosa difficile è immergersi nel mondo senza sporcarsi l'anima. ....
Il compito che ci aspetta è particolarmente arduo, ebbe a dire un saggio dell'ebraismo, non sta a noi finire il lavoro, ma non siamo neppure liberi di ritirarci. ....."

giovedì 5 agosto 2010

Esigenza di discutere con franchezza

Un brano tratto da "L'infinito viaggiare", di Claudio Magris.
".......Mi accorgo di essere incerto sul tono giusto da assumere, sulla frontiera tra il rispetto della verità e il rispetto delle persone, la responsabile attenzione a non mettere altri in difficoltà e la cautela convenzionale. Mi sarebbe facile tuonare di libertà, democrazia e Occidente, senza preoccuparmi di mettere altri in imbarazzo e senza pagare dazio, lasciando che siano loro, eventualmente, a pagarlo. L'etica della responsabilità, che pensa non solo alla purezza degli ideali, ma anche alle loro conseguenze per gli altri, è un fondamento della vita civile e della democrazia. Mai come quando si viaggia, tuttavia, si sente quanto facilmente essa possa sfumare in involontaria complicità o almeno in colpevole neutralità. I residenti, i sedentari, sono costretti a fare i conti a fondo con la realtà in cui vivono, senza svicolare, come è consentito invece a chi la notte dopo dormirà sotto un altro cielo. ..."
Parole che hanno il sapore della metafora. Con quali altre, nella sfera delle relazioni private, familiari o pubbliche, potrei sostituire "libertà, democrazia, Occidente", lasciando intatto il senso del testo?

domenica 1 agosto 2010

Il malato accenna alla sua morte imminente (Luca) (18° di Q. di L.)

Luca


Presenti..... ( dagli appunti scritti, in ossequio alla privacy dei colleghi, ritengo opportuno riportare, oltre la domanda e il pensiero di Luca che introducono il Dialogo, soltanto il paragrafo che mi riuarda, a prosecuzione e complemento di quanto trattato nel capitolo precedente e nei due successivi).


Appunti schematici, senza la pretesa di riportare esattamente pensiero e parole dei presenti.

Luca chiede ai presenti osservazioni sulle risposte da dare ad un malato che accenna alla sua morte imminente; per sé dice che tende piuttosto a favorire, se non speranze infondate, almeno il dubbio sulla evoluzione della malattia o quanto meno sui suoi tempi; ma teme, così facendo, di evadere magari un più profondo bisogno del malato di aprirsi con qualcuno sulla sua vera situazione.
Luigi sottolinea l'importanza della sincerità: una risposta che non corrisponda a quanto si sente è molto pericolosa. E il retto sentire consiste nel vedere la morte non come una violenza puramente distruttiva che dal di fuori aggredisce e annulla la vita, ma come una possibilità di portare a compimento la vita stessa, confermandone e illuminandone le parti più valide, specie quelle segnate dal filo conduttore dell'amore.
Luigi evita persino di usare la parole "morte", perché non esiste una cosa a che si chiama morte (come invece esiste una cosa a che si chiama vita): esiste soltanto un momento della vita, il morire, che della vita è parte necessaria e al tempo stesso fondamenale.


sabato 31 luglio 2010

CAMPEGGIO LUGLIO 2010 (Parrocchia "4 EVA")

Elena e io, nonni in macchina verso il "campeggio". Dal paesino in cui ci troviamo è a circa mezz'ora.
Entriamo in valle, il verde dei prati è ovunque appena sopra le pinete ma il verde è diverso, più in alto i colori delle rocce sulle pareti salgono alle creste, alle vette, più su ancora il colore di un cielo tutto uguale. E' splendido oggi.
Arriviamo in tarda mattinata per la Messa.
Gli ultimi ritocchi completano il riassetto della "Casa", la presenza vigile e discreta dei responsabili, gli ultimi zaini alle auto dei volontari. C'è aria di addio.
Attorno un senso di serenità: i più piccoli vicino al ping-pong, ragazzi e ragazze a gruppetti chi sui prati, chi sulla strada. Li vedo quieti in compagnia fra loro. C'è attesa, questa partenza è quasi un evento, già un ricordare e un parlare di ciò che li attende. Forse è qualcosa che scava dentro.
Dietro la "Casa": è lì il tavolo per l'altare. Saranno 70 non so, ragazze e ragazzi seduti seduti sul prato in lieve pendio, qualche panca a monte e da un lato a disegnare uno spazio, poi le piante. Nella parte più bassa l'altare.
Due preti. Don Flavio lascia, don Matteo è quello nuovo. Anelli di una stessa catena. Toni fraterni fra loro che partecipano anche a noi, un velo di commozione ma spesso buona ironia.
Prima della messa un lungo momento di silenzio, fatto proprio, vissuto in raccoglimento. Poi ho ascoltato parole semplici di colloquio, la serietà dell'Annuncio, il tono spirituale intimo, intriso di affetto che suscita il sorriso e la simpatia. Parole e modi che fanno pensare e chiedono ancora silenzio.
Chi vuole può esprimere una riflessione sui giorni passati al campeggio, una preghiera. "Signore ti ringrazio perché..." molti i perché.
Anch'io sentivo di aver qualcosa da dire, ma non mi era chiaro e poi forse era giusto astenermi. Era loro l'esperienza della condivisione, di quel vissuto, del tempo concesso per la "loro" messa nella libertà di parlare e ascoltare e confrontarsi. L'occasione di una consapevolezza che nasce.
In fondo soltanto questo avrei detto:
" Grazie per la testimonianza della piccola chiesa che siete, qui, voi tutti insieme, piccola quanto basta per essere immensa nel Signore, aperta e festante a chiunque chieda di entrare... Sconosciuti ci siamo sentiti accolti, partecipi di una Comunità, accompagnati dalla vostra gioia, dalla serietà e dal calore umano che, inconsapevoli, regalate anche a chi solo vi osserva."

lunedì 21 giugno 2010

Ascoltare la speranza (Luca) (17° di Quaderno di Lavoro)

Milano
Caro Luigi,
approfitto della busta che ti mando per esporti le riflessioni che mi sollecita il tuo scritto "Ascoltare la speranza".
Mi sembra di capire che in sostanza tu fai ammenda di una certa passata tendenza a dire " Questa speranza non ha senso", ad "assumere toni presuntuosi di una visione superiore delle cose" adottando quasi "la sufficienza distaccata dell'ovvietà"; e proponi invece di scavare sotto un comportamento apparentemente senza senso per scoprire il motore profondo (e ricchissimo di senso), cioè l'amore.
Concordo con te: uno scavo di questo genere non sarà mai lodato e raccomandato abbastanza. Ti dirò che io non avevo fatto una riflessione simile, ma verso la speranza infondata avevo una posizione positiva, sia pure per ragioni più modeste: e per arricchire il bestiario dei volontari ti espongo tale mia posizione (come al solito da povero ingegnere).
Secondo me: l'uomo è un animale irrazionale; specie quando gli eventi lo pongono davanti a situazioni insopportabili; infatti allora cerca sollievo nell'incoerenza, nell'alternanza tra uno stato A in cui riconosce la realtà e uno stato B in cui cancella la realtà per considerare soltanto un sogno, senza metterlo in discussione. A volte questi stati sembrano addirittura non succedersi nel tempo, ma coesistere: come se una parte del cervello pensasse in un modo, e contemporaneamente un'altra in un altro.
Io che guardo il malato dal di fuori vorrei soltanto che fosse il meno infelice possibile. Vorrei che lo stato B avesse la massima estensione possibile, fin quando possibile. E se qualcosa mi limita nell'incoraggiare il malato in tal senso è solo il tentativo (quanto difficile!) di fare un bilancio tra un piccolo sollievo ora ed una disperazione domani, più grave per la disillusione rispetto al sollievo.
Ti dirò che la mia posizione mi blocca nei casi (come ne ho uno ora: e intendevo metterlo sul tappeto nelle nostre riunioni) in cui il malato, perfettamente consapevole, dichiara di essere vicino alla fine. Io bofonchio qualcosa come "non bisogna impressionarsi di alti e bassi" o altre sciocchezze del genere; e il discorso passa ad altro. Ho evitato (o anche soltanto ritardato) un momento di disperazione? O non ho risposto ad una richiesta di aiuto? Aiuto come? Dove trovo l'aiuto da dare quando sul tavolo si pone apertamente un oggetto come la morte? Non la morte in senso generale, la morte di tutti: la morte a breve scadenza del solo mio interlocutore!
Quali parole? Quali pensieri? Dovrei essere un direttore spirituale, un santo, un profeta? Ed io che sono solo un povero ingegnere. Ne parleremo. Abbracci.

domenica 20 giugno 2010

" ci sto "

A messa pochi fedeli, raccolti. Il prete indugia qualche attimo, le braccia immobili tese verso l'alto a sostenere l'Ostia.
La guardo, e mi sorprendo a dire con determinazione dentro di me, "ci sto". Eleva il calice, e ripeto. Pensieri di intesa, di responsabilità assunta e di conforto. Un modo di dire inusuale in questo luogo, ma lì per lì prego come mi viene; forse il Signore riascolta volentieri le parole degli uomini, anche se logore, spesso disattese. In là con gli anni e in altro modo le ho certamente ripetute, eppure nascono come novità, il "canto" di ieri oggi se vuoi è un "canto nuovo".
Mi chiedo se oggi, coi capelli bianchi, ciò abbia senso , se vi sia qualcosa di adolescenziale. Si, ha senso, alla mia età ho più bisogno di Dio; in Lui bisogno di libertà e di salvezza, per tutti.
Una volta l'orizzonte era lontano, linea sottile di realtà molteplici, quasi indistinte; ora si è fatto vicino, l'angolo di visuale ridimensionato. Meno cose, più nitide, essenziali; promessa e mistero, esperienza di amore ricevuto.
La corrente mi ha portato alla foce, tutto mi è più familiare e caro, c'è più luce.
Appena in là, non so quanto, il mare aperto.
Signore ..."ci sto", ma Tu aiutami.

domenica 30 maggio 2010

Ascoltare la speranza ( 17° di Quaderno di Lavoro)

Chi accompagna un malato terminale è consapevole fin dal primo incontro, che il suo amico malato lo lascerà presto. Questa certezza affievolisce, a volte scredita ai suoi occhi, il significato della speranza che perdura malgrado tutto, nei suoi familiari, e verso la quale a volte può sembrare bene opporre una certa resistenza per rendere meno doloroso l'impatto con la realtà finale. Per "familiare" intendo la persona che ha un rapporto personale profondo col paziente.
Non escludere l'eventualità di notizie di segno positivo, pur se poco probabili o addirittura inverosimili, manifesta un atteggiamento naturale, un sogno e un riposo, che non esimono tuttavia dalla consapevolezza del presente come esso concretamente si propone e lascia ragionevolmente prevedere. Ma il dolore a volte offusca l'evidenza, e la speranza sembra diventare semplice sostegno psicologico, è l'attesa di poter traghettare dal desiderio alla realtà ciò che si vorrebbe: la guarigione della persona cara. Attesa sempre delusa nell'accompagnamento: l'ineluttabilità dell'evento e la sua importanza spingono il volontario a considerare questa "fiducia" un'illusione temporanea, un problema marginale, "...Spera sempre, ma non c'è più niente da fare!", come dire "Questa speranza non ha senso." Sono molteplici le ragioni della speranza, e spesso coesistono: la paura fisica della morte, il timore di vedere compromessa una situazione nelle sue prospettive economiche, familiari, di vita quotidiana, ma su tutte quasi sempre prevale l'amore.
Si tratta di argomento poco dibattuto tra i volontari, e io stesso soltanto ora me ne occupo con impegno, dopo alcuni accompagnamenti che hanno particolarmente sollecitato la mia riflessione.
E' davvero senza significato la speranza dei familiari, davvero un'assurdità? Non dico qui la speranza che appartiene alla Fede, ma quella che incontro comunemente, di veder guarire il malato.
Forse ha un suo messaggio, un valore proprio, a prescindere dalla sua fondatezza. Alcuni comportamenti, alcune parole mi suggeriscono che, anche se priva di prospettive ragionevoli, nessuna speranza è "disperata", nessuna priva di senso.
Preme sul familiare il tempo della clessidra, ora più incline a dirgli quanto manca, e in questa attesa che si va esaurendo c'è l'apprensione, l'urgenza del poco che resta, si condensa tutto il vissuto, i vincoli, le gioie, i progetti...in questo terreno ha radice l'assurdo della speranza. Con voce ferma o con parole appena sussurrate o vissuta nel silenzio, anche se a tratti alterna ad una visione chiara dei fatti, la speranza è frutto di un amore grande che nulla può disarmare, a dispetto di ciò che sta per accadere. E' il bisogno di confermare a sé stesso questo amore, l'ansia di testimoniarlo a tutti, forse è annuncio di quello che non verrà meno dopo la morte del malato. Allora la speranza illumina il dolore, anche degli altri.
Come porsi davanti alla speranza dei familiari? Non si tratta di un "problema marginale", è cosa importante. Abbandono i toni presuntuosi di una visione superiore delle cose, la sufficienza distaccata dell'ovvietà. Nessuna astrazione speculativa sulla "speranza", ma l'ascolto dell'uomo e della donna che sperano, di quell'uomo e di quella donna nella presa di coscienza e nell'intensità del loro vissuto.
Le parole di chi spera chiedono ogni volta l'impegno del discernimento; a volte la comprensione e l'apprezzamento del senso nascosto che lasciano intuire. Accettare la morte del malato è un atteggiamento positivo che presuppone un cammino faticoso per i familiari; aiutarli a riconsiderare la loro speranza è un atto di amore che esige dal volontario, lungo il tempo dell'accompagnamento, una seria, costante attenzione alle persone, la condivisione solidale della loro sofferenza e al tempo stesso un particolare sforzo di obiettività, una partecipazione responsabile, coraggiosa e prudente. Alla fine, l'amore della speranza ormai svanita può fondersi con il dolore del distacco.

lunedì 17 maggio 2010

Colloqui di Fede (16° di Quaderno di Lavoro)

Quando il malato terminale non ha conosciuto prima della malattia la curiosità, il dubbio, la speranza della Fede, c'è imbarazzo a parlare di Dio.
Un uomo si compiace di vedere i giorni scorrere secondo i suoi progetti, tutto è pianificato e fluisce naturalmente, ma forse un pensiero sfugge al controllo, "un cane sciolto": ogni tanto arriva poi sparisce, mai però del tutto, è una presenza in sordina, disturba anche quando è assente.
Qualcuno tenta di ammansire il pensiero della morte con l'adesione formale alla Fede; un illusione accomodante, permette disimpegno accanto a un certo ottimismo, si vive tranquilli. E poi la morte non è qui.
Non è qui, fin quando non si accosta di prepotenza, inattesa; allora ti accorgi che il tuo corpo (che pure ti costituisce) dispone come e quando vuole di te. Allora può capitare di rendersi conto improvvisamente che non si è mai presa sul serio la Fede; il pensiero stesso di Dio può atterrire, nessuna familiarità con Lui, mai pensato, mai invocato. Dio, il Padre sconosciuto appare nelle vesti del giudice. Così, quando il malato lo richiede, avverto un senso di disorientamento, quasi di imbarazzo a parlare di Dio per il sospetto di ricattare un uomo mentre si trova in condizioni estreme, di sollecitare un atto di debolezza, un compromesso. E poi, parlare...di quale Dio? La speranza sottesa può essere il baratto al dolore e alla morte, alla paura di un Dio che vuole essere pagato.
La malattia può diventare occasione di riflessione sulle domande fondamentali della vita, ma la Fede non discende dal dolore né dalla paura, se ne tradirebbero l'annuncio, travisandone l'essenzialità e la purezza dell'origine. Accettare Dio, anche se il suo manifestarsi avviene nei tempi della sofferenza, resta una scelta spirituale, un' adesione al Signore che coinvolge tutto il nostro essere ed esistere. E' realtà spirituale radicata nel cuore: la attraversa il dolore e lo sconforto, la tormenta il dubbio. Quante volte preghiamo o sentiamo pregare perché il malato guarisca, e non guarisce, non soffra, e continua a soffrire, perché la morte interrompa il tempo del dolore, e la vita continua. Ma la Fede, accolta e custodita, è altro, resta salda nella speranza cristiana, in un amore arreso e fiducioso, nel mistero di un Dio che ci salva nella morte, non dalla morte.
E' sempre un'impresa più grande di noi parlare di Dio, è "impossibile", ma noi possiamo narrare di Gesù e tentare di testimoniarlo personalmente. Proprio per Fede so che le parole semplici scambiate con il malato, non sono le sole: Dio ha parole e silenzi che non odo e non conosco, modalità e tempi misteriosi. Dico parole "impossibili" come quelle dell'Annunciazione: chi le può credere? Maria ha creduto all'adempimento di quelle parole, e ci ha donato il Salvatore. Maria, la madre di Dio.

venerdì 14 maggio 2010

La Sindone

Stralcio da una lettera inviata a un protestante (di Elena Milazzo )





......

Personalmente non amo le reliquie, sono allergica ai fanatismi, ma sulla sindone credo si debba riflettere cominciando ad ammettere che di un fenomeno straordinario si tratta comunque. Il papa ha giustamente "glissato" sul fatto che sia una reliquia; in effetti nessuno lo ha mai affermato con certezza e non si tratta di un "dogma". Si può discutere sul clamore mediatico che ormai emana non solo dall'ostensione della sindone, ma da qualunque fatto inerente la chiesa cattolica e di cui sinceramente molti cattolici farebbero a meno; si può discutere del fatto che una schiera di "sinodologi d'assalto" si sforzino di dimostrarne l'autenticità; si può discutere sull'aspetto economico-turistico che investe diocesi e città di Torino e che forse contribuisce a gonfiare l'evento per fini di lucro. Tutte cose sacrosante. Ma veniamo alla gente. Ho visto la sindone molti anni fa, certo più di trenta. Non mi interessava e non mi interessa la sua autenticità come telo che ha ricoperto il corpo di Gesù, ma se non è autentica (e penso che non lo sia), è ancora più straordinaria. E allora è giusto considerarla come un'icona, che aiuta a pregare e a riscoprire nei Vangeli ciò che racconta come immagine. Potrebbe essere un oggetto che suscita il desiderio di saperne di più, riscoprendo nei Vangeli la narrazione della passione e della morte di Gesù? Riporto l'obiezione di Piero Stefani in proposito:

Solo se fosse possibile prescindere da ogni discorso circa la sua autenticità o la sua falsità avrebbe senso andare a Torino per vedere la Sindone. C'è da dubitare che ci si trovi in queste condizioni. Resta in ogni caso certezza di fede che leggere e meditare la narrazione della morte di Gesù secondo i quattro Vangeli costituisca l'accesso più autentico per cogliere il senso della morte di Gesù. Nel credere, l'ascoltare prevale sempre sul vedere. Scrisse Kafka:" Chi crede non vedrà mai un miracolo. Di giorno non si vedono le stelle."

Nel credere, l'ascoltare prevale sempre sul vedere, ha ragione Piero. Ma all'inizio, spesso, c'è una visione: non fu così per Paolo? L'ascolto in Paolo coincise con la visione. La visione della sindone può alludere, per molti, a parole della passione narrata nei Vangeli. L'ostensione della sindone potrebbe suscitare un cammino iniziato per curiosità e continuato per grazia. Io vorrei che si distinguesse tra la sindone e le reliquie in genere. Le reliquie portano facilmente a fanatismo e superstizione, la sindone è diversa e anche se il rischio di fanatismo e superstizione è comunque presente questo esito non è detto sia sempre prevalente tra quanti si recano a vederla. Il vostro timore che si "relativizzi la Parola di Dio" ci mette in allerta e deve richiamare i responsabili di questi pellegrinaggi ad una grande attenzione, ma negare in assoluto che la cosa possa orientare in modo positivo la fede di tanti lo ritengo sbagliato. Si tratta di un atteggiamento comprensibile nei protestanti (troppo devozionismo in casa cattolica!) ma forse, sulla sindone, è eccessivo.

sabato 8 maggio 2010

Colloquio breve

A messa. Pochi fedeli, raccolti. Il prete indugia qualche attimo, immobile a sostenere l'Ostia, le braccia tese verso l'alto.
La guardo, e mi sorprendo a dire lento, dentro di me con fermezza "ci sto". Poi eleva il calice, e ripeto, uguale determinazione. Parole di intesa, di responsabilità assunta e di conforto. Un modo che non ho mai pensato per dire la Fede, prego lì per lì come mi viene; e poi penso che il Signore riascolti volentieri le parole degli uomini, anche se logore, spesso disattese. Un vecchio le ha già ripetute, eppure nascono come novità, "il canto" di ieri, oggi se vuoi è "un canto nuovo".
Mi chiedo se tutto ciò abbia senso alla mia età, se vi sia qualcosa di adolescenziale. Eppure sì, ha senso, è differente dalla prima volta e anche dal "canto" di ieri, è qualcosa di più, ho bisogno di esprimerlo.
Preghiera semplice, però da ripensare, da approfondire sempre quella che non fabbrico io, quella che lo Spirito dice.
Una volta l'orizzonte "era lontano", linea sottile di realtà molteplici, quasi indistinte; ora si è fatto vicino, l'angolo di visuale ridimensionato. Meno cose, più nitide, essenziali. La corrente mi ha portato alla foce, tutto sembra più chiaro, appena in là, non so quanto, il mare aperto.
Signore...."ci sto", ma Tu aiutami.

mercoledì 28 aprile 2010

Perché questa scelta - Il tempo nella terminalità (termina 15° di Q. di L.)

Il presente nel tempo dell'attesa.




Tutti abbiamo sperimentato il tempo dell'attesa, aspettando qualcuno o qualcosa, o che accadesse un evento (forse la vita stessa è attesa), ma nella quotidianità abbiamo anche sperimentato che soltanto nel tempo presente vi è la possibilità di affermarci, di crescere, di ritrovare noi stessi, di realizzare e imprimere un senso nel concreto della nostra vita.
Il malato terminale provato dalla situazione in cui giace, spesso disperde il presente per viverlo come tempo di attesa: aspetta l'esito degli esami, la visita dell'infermiere, attende la luce del giorno perché la casa si faccia più viva, forse un amico, attende che la sua ansia si plachi.
E' importante restituire al malato "il tempo presente", aiutarlo a recuperare il concreto quotidiano vivendo insieme a lui le cose di sempre: la sua casa, le persone, tutto ciò che di positivo lo circonda, per nella sofferenza; accanto in una presenza lieta e sobria, predente e vigile nei momenti del dolore.
La "sosta" nel tempo presente concede la possibilità di riconsiderare tutto ciò che accade in una comprensione più ampia della vita (passata e attuale), di scoprire forse nuovi significati, prospettive inattese e forse una speranza oltre la morte. Il presente è l'unico tempo di cui disponiamo.
Soltanto nel fluire del presente posso ascoltare il Signore, tenere fisso in Lui lo sguardo: se mi è concesso, vivere alla presenza di Dio.

martedì 27 aprile 2010

Perché questa scelta - Il tempo nella terminalità. (Continuazione 15° di Q. di L.)

Il presente nel tempo che scade.



Durante la frequentazione del malato terminale affiora il senso del tempo che scade, nel suo lento maturare o nell'irrompere improvviso. I fatti celati nel lungo periodo, in quel determinato momento si manifestano come definitivi, oppure accadono del tutto inattesi nell'immediatezza, e scade un tempo che segna la vita che rimane; c'è stupore, o sgomento, ma tutto rientra inesorabilmente nel concreto della corporeità e del tempo.
La persona, quando ancora non sa di essere malata, ascolta la diagnosi e in quell'istante si sente altro: si scopre assegnata all'umanità malata di cancro.
L'ultima volta che ha guidato, camminato senza supporti, che ha portato il cucchiaio alla bocca, o appena prima o dopo l'intervento che deturpa, l'amputazione.. Istanti come cesoie che scendono a interrompere i tempi, a modificare funzionalità fisiche o intellettuali, abitudini di vita e relazioni; soglie che in successione vengono varcate in un solo senso e sommessamente preparano a ciò che avverrà. Tutto ciò appare al volontario come qualcosa di assoluto, di non negoziabile, oltre le frontiere della medicina, qualcosa di crudele ma che appartiene al ciclo della natura, alla vita.
Non sempre il malato percepisce che proprio in quel momento si è voltata una pagina della sua storia: il corpo soggiace a una natura che impone, e il recente diventa ricordo. Del resto "l'accompagnamento" indica un cammino, parla perciò anche dell'abbandono di un luogo, abbandonare per andare avanti: contesti obbligati, inseparabili. Insieme, fin dove è concesso: poi la persona malata si inoltra da sola.
( continua )

lunedì 26 aprile 2010

Perché questa scelta. Il tempo nella terminalità (Continuazione 15° di Q. di L.)

Mentre riflettevo sul senso del mio essere volontario, m'è capitato di ascoltare la voce sommessa del malato "Perché mi succede tutto questo, perché proprio ora?". E' la fisicità della sofferenza, del bisogno di amore, della vita prossima all'abbandono. Le parole del malato, il mio esserci vicino a lui, il silenzio condiviso in quella stanza, forse sono la risposta che non sapevo dare al "Perché di questa scelta?".
Risposta impegnativa per il volontario; permette di intuire che ogni accompagnamento riserva un cammino di maturazione e la visione concreta della finitezza dell'uomo. L'incontro con queste realtà chiede da un lato di approfondire le ragioni sul senso ultimo della vita, dall'altro sollecita a prendere coscienza del tempo presente e ad accoglierlo nel momento in cui lo viviamo, anche quando sembra scorrere invisibile nella quotidianità.
Ogni accompagnamento ha come schema comune di fondo il susseguirsi delle fasi della malattia, con un proprio ritmo di aggravamento sino al compiersi della vita. In questo spazio di tempo si disegna la storia personale del malato, quella della sua malattia, e si inserisce la figura del volontario che, svincolato da interessi professionali o scientifici, è in grado di riservare tutta la propria attenzione alla persona sofferente nella sua complessità.
In un clima di accoglienza e di rispetto, l'accompagnamento si rivela punto di osservazione critica del vissuto del malato, dei suoi familiari e delle reazioni del mondo esterno di fronte alla malattia, nei vari aspetti e gradi di coinvolgimento.
Mi soffermerò ora su due argomenti che ritengo di frequente impatto per i volontari.
( continua )

domenica 25 aprile 2010

Perché questa scelta. Il tempo nella terminalità (15° di Q: di L.)

Approccio informativo sulle U.C.P.D. - Spunti di conversazione con gli studenti universitari Facoltà di Medicina.
Perché questa scelta ?
E' la domanda che ogni volontario pone a stesso particolarmente all'inizio dell'attività, e sulla quale insistono le psicologhe nei colloqui di idoneità e di ammissione al gruppo operativo. Può suscitare imbarazzo per la propensione a schermirsi dal mettere a nudo convinzioni profonde e perché esige un certo lavoro di introspezione. La risposta che ne segue tratteggia, pur sommariamente, un atteggiamento e una concezione di vita che interessano non soltanto il volontario, ma anche le persone con le quali egli viene in rapporto: il malato in primo luogo, che non tarderà a porre questa domanda, i colleghi poi in un confronto di mentalità, i medici, gli infermieri.
Educazione familiare, esperienze personali, bisogno di esprimere solidarietà, fede religiosa, disponibilità di tempo, risultano spesso i luoghi cui attingere le motivazioni, che tuttavia appaiono a volte troppo generiche.
Col tempo ci si accorge che la domanda è complessa e non si esaurisce con una risposta; anzi non è mai compiuta, si ripresenta ogni volta che conosciamo un nuovo malato e ogni volta che il malato ci lascia, con il senso della vita e l'interpretazione della morte che il malato ci svela, con le parole delle persone che gli sono vicine.
Ne prendiamo coscienza nell'ascolto. Ascoltare, una parola come le altre, ma che in questo volontariato presiede ogni attività: l'ascolto delle parole, dei bisogni, degli sguardi, del silenzio, delle situazioni...è difficile spiegarlo a chi non può immaginare la lotta che il malato terminale sostiene in stesso, la paura di sentirsi solo nella malattia, l'urgenza di parlare del suo passato, di quello che gli sta succedendo, i suoi stati d'animo di fronte a ciò che sente incombere e non conosce. E' un ascolto che lo consola e lo aiuta. L'importanza della conversazione può indurre il volontario a "fingere" di non aver compreso bene la domanda, a chiedere puntualizzazioni superflue. Rimandare la risposta per dare tempo al malato di riproporre con altre parole e altri particolari ciò che gli sta a cuore, significa aiutarlo ad essere più consapevole del pensiero e delle convinzioni che va maturando.
Sorprende come la sofferenza, che al suo apparire può stravolgere le prospettive di vita di un intero nucelo familiare, a volte possa mettere in luce nelle persone doti, capacità, aspetti positivi mai immaginati: si sperimenta lo stupore, la sorpresa opposta alla esperienza della delusione. Anche questo scenario colpisce l'animo dei volontari sino ad avvertire riconoscenza verso chi soffre ed essere più umili.
( continua)

martedì 20 aprile 2010

La cappella ecumenica di BOSSEY (Ginevra)



Una linea orizzontale e una più lunga verticale, a piombo. Linee diritte, le croci dei campanili, degli altari.... a volte le vogliamo elaborate, questione di stile, gusto personale.

Nella cappella di Bossey appesi al muro due pali scortecciati, si direbbe raccolti "a caso" nei boschi vicini, inchiodati l'uno all'altro, per niente a piombo, nessuna simmetria.

I due bracci diseguali, il tratto verso il capo e quello del corpo, ognuno discontinuo nella forma, mai una linea diritta.

Ci si perde davanti a questa croce. Sconvolge, è silenzio.

Come è diversa dalle croci dei campanili, dalla parola "croce" che pronunciamo nelle nostre preghiere: la pensiamo già accolta, ordinata nelle forme, nelle proporzioni, che abbia almeno una dignità,....poi di colpo eccola che ti parla dal muro: ogni tratto di quei legni è mistero, incomprensibile, non sai come raccapezzarti, come è possibile,..con sforzo risali a Chi c'è stato, e non puoi non pregare.

Questa croce sorprende in ogni suo tratto, come quella che viene data a ciascuno, e a ciascuno resta accanto il Signore, insieme e invisibile lungo tutto il cammino.

Non vi è croce uguale all'altra, ognuna un pezzetto di croce della cappella di Bossey, eppure tutte si unificano nell'Unica. E non solo nella croce, ancor prima nella preghiera di ogni confessione e nella consapevolezza di un Dio che ci ama. Tutti.




venerdì 26 marzo 2010

Pedofilia

Nuvole ancora, e fanno tutto bigio: c'è bisogno di cielo azzurro, di brezza leggera e tiepida.
Bigio come le notizie di stampa, radio e TV: ti saltano addosso e non riesci a scrollartele via, non mi interessa l'alto gradimento per l'Isola dei Famosi, persino la "Sanitaria" di Obama (splendida per decine di milioni di americani) ritorna in bilico.
Poi la questione morale si insinua in ogni ambito, ad ogni livello, compresa quella gravissima della pedofilia del clero.
Per fortuna tante le voci sincere di sdegno anche tra i cattolici, le contestazioni al metodo rivolte alle gerarchie, le sollecitazioni a cambiare. Eppure tutto questo soltanto, lascia un vuoto, l'amarezza di un'omissione.
E' importante contestare con fermezza, parlare e agire perché questa Chiesa malata si rinnovi; però non cessiamo, pure con sofferenza, di amarla perché comunque appartiene al Signore: quando era a tavola qualcuno ha messo con Lui "la mano nel piatto" e lo ha tradito. Gesù l'ha fondata e, conoscendo da prima tutto questo, l'ha affidata all'uomo e l'ha amata , e la ama.
Aiutando la Chiesa a "guarire", può accadere di sentire un richiamo, "chiusa la porta della sua stanza", a fare i conti, ciascuno per , con la responsabilità personale e comune della propria appartenenza al Polpolo di Dio.
Primavera in ritardo quest'anno, c'è bisogno di cielo azzurro, di brezza leggera e tiepida per un nuovo respiro. Verrà.

giovedì 25 marzo 2010

Convivere con il tempo (14° di Quaderno di Lavoro)

Il mondo attorno a noi va in fretta. Fitti gli impegni; la produzione, i trasporti, la comunicazione, tutto sempre più rapido e incalzante... una frenesia, ora obbligata ora ambita, ci avvicina a tante cose e ci preclude l'essenziale. Questo ininterrotto rincorrere è assillante, tende a renderci estranei alla vita nella sua profonda dimensione spirituale, condiziona il rapporto con noi stessi e con gli altri.
Forse la domanda appropriata può essere: " A che velocità viviamo ?". Una frase ad effetto che mi pare ritrarre compiutamente lo spaesamento del fare e dell'essere nell'uomo di oggi. L'ho ascoltata da un compositore poco più che trentenne mentre raccontava di sé, paralizzato dal bacino in giù a causa di un incidente: la sua compagna perduta, l'importanza per lui della musica, "l'inferno del suo stato". "A che velocità viviamo ?", quale il significato della vita, come conoscerci dentro, noi stessi, gli altri?
Per il malato a volte il tempo sembra fermo, brevi gli anni e i mesi alle spalle, le settimane lente, la notte, i minuti infiniti; oppure accade che viva l'esperienza opposta, il precipitare del tempo e degli eventi, si accavallano timori, emozioni violente.
Ma qualunque sia la sua situazione, il malato con la sua stessa presenza si impone al mio modo di vivere, la sua stessa precarietà è autorevole e sembra dirmi " Fermati, ascoltati! ". Certo, "Ascoltati", se non so ascoltarmi come posso ascoltare gli altri? Accanto al letto del mio malato il tempo riacquista il suo naturale scandire, il ritmo si fa a misura d'uomo e modula lo stile dell'approccio e della conversazione. Ho bisogno di vivere il tempo nel suo battito immutabile, mentre tutto cambia e si compie.
Durante l'ascolto, il colloquio o il silenzio, mi accorgo che il malato modifica la mia vita, perché sostare non è tempo perso, è piuttosto occasione di ripensamento, comprensione più approfondita, scelta; è maturità. L'accompagnamento mi cambia e nasce in me la riconoscenza verso il malato.
Non è l'elogio della lentezza, è lo stupore di fronte alla nostra vita travolta in una corsa innaturale, che isola, e a volte rende assenti dalle realtà più vere e più belle.

domenica 21 marzo 2010

La collaborazione Infermiere - Volontario (Luca) (13° di Quaderno di Lavoro)

E-mail testo integrale per il Quaderno di lavoro: "Post scriptum del volontario Luca"

Caro Luigi,

ho letto la tua nota sulla collaborazione infermiere - volontario, e mi pare che metta bene a fuoco le specificità delle due parti.

Mi pare anche opportuno aver ricordato che il volontario, per la formazione che ha ricevuto,conosce perfettamente il limite che gli compete, e quindi evita con la massima cura considerazioni su terapie, sintomi, tempi, previsioni ecc.., che sono di competenza soltanto del personale curante.

Chiarito così ciò che ci distingue, vorrei portare testimonianza di ciò che ci unisce: il sentimento verso il malato. Vorrei ricordare i numerosi casi in cui, nelle parole scambiate col personale infermieristico, ha trovato posto la simpatia umana verso quel tale tipo di persona che assistevamo insieme; e di questa comunanza di sentimento vorrei dare, agli amici infermieri, un ringraziamento di cuore.

giovedì 18 marzo 2010

Comunione mistica con Dio

Le ultime parole dell'Itinerarium di San Bonaventura rispondono alla domanda come si possa raggiungere la comunione mistica con Dio.

" Se ora brami sapere come ciò avvenga,

- interroga la grazia, non la dottrina;

- il desiderio, non l'intelletto;

- il gemito della preghiera, non lo studio della lettera;

- lo sposo, non il maestro;

- Dio, non l'uomo;

- la caligine, non la chiarezza;

- non la luce, ma il fuoco che tutto infiamma e trasporta in Dio con le forti unzioni e gli ardentissimi affetti...

- Entriamo dunque nella caligine, tacitiamo gli affanni, le passioni e i fantasmi; passiamo con Cristo crocifisso da questo mondo al Padre, affinché, dopo averlo visto, diciamo con Filippo, ciò mi basta (ibid.,VII,6)

da:Itinerario della mente in Dio, Prologo, 2, in Opere di San Bonaventura. Opuscoli teologici / 1, Roma 1993, pag. 499.

lunedì 22 febbraio 2010

La collaborazioen Infermiere - Volontario (termina 12° di Quaderno di Lavoro)

Via via che la relazione diviene più familiare, e proprio a motivo di ciò, il volontario ripropone a sé stesso il limite che gli compete, particolarmente ponendo maggior autocontrollo alla propria spontaneità e astenendosi da considerazioni attinenti terapie, sintomi, tempi, previsioni: in tutto ciò il volontario resta semplice spettatore. Presenza ed estraneità significative che rafforzano la figura del volontario e invitano il malato ad uscire dal pensiero ricorrente della sua malattia per aprirsi ad altri argomenti.
In modo speculare è opportuno che l'infermiere non sottovaluti la delicatezza e l'importanza della situazione quando gli accade di incontrare il malato in presenza del volontario. I numerosi impegni professionali certamente premono nel loro susseguirsi, richiedono quasi una compressione del tempo, e tuttavia è sempre auspicabile una particolare discrezionalità nell'aprirsi il varco durante una visita o un colloquio in corso col volontario. Non si tratta di graduare importanza, precedenza o tempo a favore del volontario o dell'infermiere: sono in gioco la precedenza, l'importanza, il tempo riservati al malato almeno per alcuni istanti: quelli necessari ad uscire da un tipo di relazione (o stato d'animo o argomento) ed affrontarne uno di natura differente.
La domanda di una bambina alla sua mamma, mi offre l'occasione di definire meglio il problema.
"Queste sono le mie mani, questa è la mia testa, i miei piedi, le mie gambe, questo è il mio petto, la mia voce...ma io dove sono?"
Non credo importi conoscere la risposta della donna. E' importante invece ciò che ciascuno di noi oggi risponderebbe a sé stesso. Un volontario, ad esempio, potrebbe così rispondere:
"Io sono il mio corpo, la mia intelligenza sono io, il mio spirito, la mia volontà, il mio modo di rapportarmi con gli altri sono io, il mio modo di ridere e di piangere, di parlare e di tacere, le mie speranze, il mio soffrire, i sogni, la paura, se ho fede la mia preghiera, tutto e altro ancora sono io..." Qui sta la complessità insondabile dell'uomo e la molteplicità degli spazi in cui operano fianco a fianco volontario e infermiere.
Voi infermieri offrite prestazioni irrinunciabili per il controllo del dolore, al punto che spesso la vostra opera condiziona la sopportabilità della malattia del malato e dell'angoscia nella vita dei familiari.
Noi volontari ci occupiamo di ciò che non rientra nelle vostre competenze professionali, e disponendo del tempo che voi non avete, tentiamo con determinazione di sostenere il malato nel suo cammino e nelle sue soste. Lo accompagnamo senza abbandonarlo mai: né lui né la sua famiglia.

domenica 14 febbraio 2010

La collaborazione Infermiere - Volontario (12° di Quaderno di Lavoro)

( Approccio informativo sulle U.C.P.D. - Spunti di conversazione con gli infermieri )



Svolgo attività di volontariato inserito in una Unità di Cure Palliative Domiciliari. I rapporti con i colleghi, con gli infermieri e coi medici, vissuti in un normale clima di serenità, sono improntati ad un forte impegno nella professione e nella responsabilità personale. Questo atteggiamento presuppone la conoscenza delle mansioni proprie ed altrui, quindi la capacità di individuare e rispettare gli spazi professionali e di volontariato: anche su queste realtà si fondano la stima e la libertà di instaurare tra noi un colloquio aperto e sincero.


Mi chiedo quanta difficoltà possa suscitare in un infermiere professionista, al suo ingresso nelle U.C.P.D., l'idea di collaborare con una persona del tutto estranea alla cultura medica. I volontari infatti provengono da attività professionali e livelli culturali differenziati lontani dal "mondo della sanità, pur avendo frequentato un corso di informazione sulle problematiche del malato oncologico e della sua famiglia. Perplessità ancor più plausibile in un contesto sociale che riserva sempre maggior apprezzamento alla specializzazione.


Queste osservazioni mi invitano a intrattenere gli infermieri sul "volontariato" e tentare alcune puntualizzazioni.


La specifico della professione infermieristica si manifesta in tutta la sua evidenza negli atti e nei rapporti col malato di chiara natura paramedica: difficile invece individuare la natura e il limite dell'attività svolta dal volontario, attività non professionale, che si esplica in un contesto semplicemente umano.


Sappiamo che il rapporto col malato è innanzi tutto rapporto con una"persona" e come si possa venire coinvolti oltre la sfera professionale: in tale rapporto confluiscono l'accompagnamento da parte del volontario e l'assistenza propria dell'infermiere, impegnati l'uno e l'altro a mettere a fuoco l'ambito delle rispettive competenze.


In questo consistono la forza e la fragilità della nostra collaborazione, la cui qualità non può essere priva di effetti per il malato. Il rapporto umano col paziente non può che essere mantenuto, ma è necessario individuarne le prospettive.


Il volontario a contatto col malato ha il solo scopo di aprirsi alla relazione umana nella modalità che il malato stesso vorrà instaurare, negli ambiti e nel tempo a lui graditi, con il bagaglio spirituale, culturale e psicologico che ognuno porta con sé, senza imporlo e senza rinunciarvi.
Nel periodo iniziale l'approccio può trovare sbocco in attività di aiuto materiale, concreto: porgere al malato il bicchiere, aiutarlo a trovare una nuova postura, ricordargli l'assunzione di una medicina, contattare con urgenza l'infermiere per l'insorgere improvviso di un aggravamento. Ma la malattia, nel suo stesso aggravarsi, non è l'unico motivo di inquietudine per il malato, e col tempo il colloquio che il volontario intesse con " l'uomo" colpito da malattia (non col malato in quanto tale), può inoltrarsi in ambiti personali di vita vissuta, di ricordi, di spiritualità, di dubbi e speranze; il malato può conoscere il riposo che suscita la comprensione condivisa nel silenzio.
( segue )

venerdì 12 febbraio 2010

Condono preventivo

da Corriere della Sera,10.02.2010 - via multe per 100 milioni
E SUI MANIFESTI ABUSIVI ARRIVA IL "CONDONO PREVENTIVO"

Roma - di Sergio Rizzo


-Condoni ce ne hanno somministrati di ogni tipo...
Ma un condono preventivo non si era mai visto. ..la tradizionale sanatoria... viene estesa al 31 maggio 2010. Ciò significa che i partiti avranno altri quattro mesi di tempo per devastare i muri delle città durante e dopo la campagna elettorale per le regionali..
...Il primo giugno basterà che ciascun partito paghi mille euro per ogni provincia dove ha attaccato manifesti abusivi, e la faccenda non se la ricorderà più nessuno. ...tranne forse i cittadini, che avranno i muri delle loro case imbrattati, e i Comuni che dovranno rinunciare a un bel po' di soldi.
" Abbiamo stimato che ad ogni elezione di carattere nazionale, tra sanzioni per manifesti abusivi e spese di defissione le amministrazioni comunali ci rimettono da 80 a 100 milioni. ...danni enormi ai Comuni, i quali hanno già messo in bilancio le sanzioni dopo aver comunque speso milioni per staccare i manifesti." (il segretario radicale Mario Staderini)
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Danni economici alle Amministrazioni, non indolori per i cittadini: questi i danni che "si vedono": ma del danno "invisibile" chi ne parla?
E' nato l'abuso premeditato, continuato e "assolto" in gestazione. E' il rifiuto della Legge, incurante del rispetto del cittadino. Il degrado che si assolve da , spavaldo e senza rumore, sale in cattedra e sancisce forse per la prima volta una legge che, mentre lo definisce e condanna, gli riconosce dignità e legalità. Sommessamente si insinua a convincere le menti e le coscienze che l'abuso è qualcosa di opinabile, cui è sempre possibile porre rimedio. Il tentativo di sottrarsi al giudizio critico del cittadino semplicemente perchè il sopruso è fatto diventare legale.
Quando e in quale occasione più grave si rinnoverà l'esperienza?