mercoledì 8 dicembre 2010

Lasciarsi conoscere ( 26° di Q. di Lavoro)

Quando il volontario avvicina il paziente nella fase avanzata della malattia, fa esperienza di una modalità insolita dell'accompagnamento; è lo stadio in cui le forze sono quasi esaurite, la parola affiora a fatica e momenti di lucidità si alternano a spazi di assenza.

Questo particolare stato sollecita ad usare ogni attenzione al limite del possibile, che allevii il dolore e offra la consolazione di una presenza amica, anche se sconosciuta. Ma al di là del "prendersi cura", che già è ascolto, il pensiero che il vero "dramma" del distacco si compie nella solitudine di questo silenzio obbligato, spinge il volontario a desiderare intensamente di poter cogliere una parola, comprenderla per restituirne un'altra nella quiete, che rincuori.

Ricordo di aver scritto che il silenzio "ospita sempre un messaggio e un segreto:ciò che vorresti donare e che incosapevolmente esprimi con tutto te stesso; ciò che del tuo silenzio il malato porterà con sé" (Scelgo il mio silenzio). E' quanto accade ora.

L'ascolto del volontario sembra trovarsi in un vicolo cieco, ma non altrettanto avviene per il malato, o almeno non sempre, e può sfuggire un aspetto importante presente nella sua prospettiva: il bisogno di conoscere chi gli sta accanto, un'urgenza che cresce in rapporto alla gravità dello stato in cui sa di trovarsi. E' persona che non ho mai incontrato prima, perciò il suo sguardo domanda "Chi sei, perché qui?", e lui stesso risponde al mio posto.

C'è una comprensione possibile dell'animo che si esprime nel volto di un uomo anche nel silenzio; di tanto in tanto il malato mi "spia", immobile, in una consapevolezza mai definita. In questo incontro di sguardi, in pochi attimi, si riassume l'amore dell'accompagnamento.

Lasciarsi conoscere significa privilegiare il malato nel rapporto secondo le forze che ancora gli restano. Non si tratta di "rinunciare" all'ascolto, ma in certo senso di accettare qualche istante o pochi minuti di "sospensione"; non di prestare ascolto ma di prestare me stesso, consegnandomi alla sua iniziativa. Quando la via del colloquio è impraticabile, rimane la presenza accanto all'altro nel silenzio: unica a dire di me ciò che io non posso o non saprei dire. Nel silenzio accompagno il malato e ne sopporto lo sguardo, ora fisso, a volte fugace: ora di sfinimento, o inquieto o rassegnato, ora di pace, senza possibilità di replica; lasciarmi conoscere, accettare di essere "visto" come il morente mi vede. Può turbare. E' presenza semplice e affettuosa che spontaneamente vela nel mio sguardo ogni autoaffermazione presente nel comune confronto con l'altro.

"Lasciarsi guardare" non è disimpegno, ma consegna consapevole della propria immagine. E' tutto ciò che posso fare per lui. Questo atteggiamento affina l'ascolto ed è esperienza che mi aiuterà ad incontrare meglio l'altro.

Il cristiano vive nel tempo che passa la sofferenza del momento e la certezza dell'eterno, vive questo accompagnamento nella preghiera semplice, che abbraccia con fiducia il mistero della vita e della morte.

2 commenti:

  1. Accettare di essere visti per quello che siamo. Roba difficilissima, cui il tuo pezzo mi aiuta a pensare. Se posso, credo che sia roba difficilissima anche lasciarsi vedere per quello che siamo da chi è vivo e vegeto e ci sta accanto e ci starà accanto nel futuro. Grado ancora maggiore, per me... accettare di essere visto per quello che sono da me stesso. Senza giudizi. Solo accettare. Difficile...
    gio

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  2. Grazie Giovanni. Le visite dei figli, prima Chiara ora tu, mi fanno semplicemente un grande piacere, e sfido l’ insinuazione malevola e sottile, che potrebbe serpeggiare a ragione: “sono le uniche”.

    Sento la tua partecipazione a quanto ho vissuto e l’entusiasmo ad allargare l’orizzonte spirituale, forse ad abbozzarne un percorso, ciò mi porta a scorrere nuovamente quell’ esperienza , se mi riesce, a confidarti altro.

    Nelle mie parole accenno a quanto ho avvertito in me, come la sensazione provata nell’ essere guardato, il mutare del comportamento esteriore, l’evolversi di una condivisione nuova, …eppure tutto ciò non è il cuore dell’accaduto.

    Il malato mi guardava con gli occhi umani di Dio. Qui mi fermo ed è tutto. Quanto a me non avevo alcuna preparazione, il mio mutare interiore m’è parso soltanto ciò che quel malato mi ha “restituito” gratuitamente in questo scambio di vita, di presenza reciproca senza parole e non mute, soltanto un percorso in cui sono stato accompagnato per mano, non altro. Uno sguardo dal quale non puoi fuggire.

    Personalmente trovo difficoltà a definirmi “per quello che sono”, ( non significa negare l’importanza di ogni scienza!). Soltanto il Signore, se “incontro” il suo sguardo e si ferma con me, mi fa conoscere chi io sono, qui sta la misura sconosciuta, la verità di ognuno e di tutti.

    Riflessioni che ne richiamano altre, e come tu accenni vanno aperte ad orizzonti più ampi e concreti.

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