venerdì 23 ottobre 2009

L'urlo e il lamento (6° di Quaderno di Lavoro)

L'urlo del dolore è irrispettoso della dignità dell'uomo. Può mutarsi in uno scempio di voci che si rincorrono, ma è sempre la stessa, che si modula in suoni impossibili; solca un tempo sempre troppo lungo, tragica e ridicola, allo sbando, senza controllo. E' la pura reazione del nostro corpo animale sopraffatto: interrotta ogni comunicazione. Anche il contatto fisico, così carico di significati, trattiene soltanto i sussulti di un movimento scomposto. Ma appena il dolore si riaccosta alla soglia della sopportabilità, la piena dell'urlo si quieta, nasce di nuovo il lamento, riemerge l'umanità, il malato con le sue emozioni, i suoi sentimenti. Il lamento ha orizzonti vasti, sussurra o grida l'intensità dell'animo, il sentire che l'uomo ha dentro di , oltre la sua parte dolente.
Realtà complessa il dolore del malato terminale, risiede nella carne, ma affonda le radici anche nel vissuto, nell'interpretazione che il paziente ne da; c'è il passato, c'è la sua vita di oggi, le sue aspettative. Il rifiuto, la delusione o la rabbia, oppure la rassegnazione o addirittura l'amore, la fede, si fondono con la sofferenza fisica fino a costituire nel lamento una sola espressione, una natura, una realtà unica eppure complessa: questo è il dolore che ho conosciuto accanto al malato terminale. La vita che mi ha voluto confidare, i suoi percorsi di luce e di ombre, i significati, le speranze, mi aiutano a comprenderne il lamento.

La tentazione è di essere sbrigativi: si dice "Non complichiamo le cose", oppure "Si lamenta solo perché sente male". Vero, ma qui ogni semplificazione impoverisce la condivisioe delle realtà che più gli stanno a cuore e che non è in grado di esprimere, significa trascurare una porzione rilevante del suo dolore. Una minor comprensione può far scivolare il malato dall'isolamento che già patisce, alla solitudine.

E' difficile parlare del dolore del malato terminale senza correre il rischio di dire troppo poco, il rischio della banalità, oppure quello di parlarne senza dire nulla. Però è anche impossibile parlarne compiutamente. Accanto al malato terminale ho conosciuto anche un'altra verità: il dolore oltre ad essere complesso è inesprimibile.

(Renato novembre) Un malato anziano, T. cerebrale, afasico, emiparesi lato destro. Dolori lancinanti da "crampi" alla gamba. Si dibatte, urla, cerchiamo di trattenerlo. Una breve tregua, e il dolore si fa sopportabile, si volta: un lamento sommesso, tremulo, lo sguardo assorto, fisso negli occhi della moglie china su di lui; alza il braccio sinistro e con le nocche sfiora lentamente il viso della donna. Ripete il gesto. Di nuovo urla. L'iniezione.

Non basta lo sguardo, né l'udito, c'è di più: sono così lontano dal capire, ho bisogno quasi di non vedere, non udire per comprendere meglio. L'urlo e il silenzio del dolore sono assordanti, ma non in senso fisico. Anche dentro il silenzio ti scuote l'ascolto.

Mi si chiede di tenere a bada le emozioni, ora il mio dovere è la sorveglianza lucida, la presenza efficiente, e così mi impegno. Ma tutto si raccoglie nel cuore.

mercoledì 14 ottobre 2009

Parlami della tua morte ( termina 5° di Quaderno di Lavoro )

Maturare una posizione davanti alla realtà della fine, ha significato per me mettere a confronto la consapevolezza dei valori che determinano la mia esistenza, la mia stessa persona, con le situazioni estreme e ricorrenti, che caratterizzano e accomunano le esperienze dell'accompagnamento. Ancora oggi significa collocare nel mondo della mia normalità quotidiana ed applicare a me l'esperienza vissuta dal mio malato, del "qui e adesso", dell'imminente e del già accaduto, dell'attesa sopraffatta dal silenzio e dalla immobilità del dopo. Questo percorso si affianca alle parole della scienza ed è, a mio avviso, un cammino importante, cui può seguire una risposta a volte non formulata, ma concretamente vissuta, perché questo procedere modella la vita.
Scaturisce un nuovo modo di essere, di accostarsi alle persone e ai fatti; un modo non secondario di parlare al malato della sua morte, di rispondere forse a una domanda sottesa, che non trova la forza di emergere. Il modo personale di condividere l'attesa diventa colloquio, testimonianza semplice di speranza, forse parole che consola.
Qualcuno mi chiede "...cosa vai a dire a un malato terminale ?". Non so, ma spero che anche la mia sola presenza sia un dire.

sabato 10 ottobre 2009

Parlami della tua morte (5° di Quaderno di Lavoro)

Chi avvicina questo tipo di volontariato ha occasione di ascoltare molte conferenze sulla morte. Parlano medici, psicologi, volontari, consigliano libri e letture, la morte insomma è qualcosa da analizzare e conoscere perché non deve spaventare. L'oggettività e il distacco, il coinvolgimento controllato marcano il limite professionale: la persona scruta, osserva, analizza il "fatto" vissuto da un altro. Poi con acutezza relaziona, e iniziano i distinguo: la morte, il morire, l'abbandono "anticipato" della vita...qualcosa che appartiene a tutti e a nessuno. Fa parte di un bagaglio di conoscenze indispensabili nella fase di preparazione all'attività del volontario domiciliare. Ho appreso con impegno e spero con senso di responsabilità.
Ma altro è parlare della morte, altro trovarsi a vivere la morte mentre il malato muore, e altro infine, è l'esperienza che il volontario ne porta con sé e rielabora. Il malato che si sente vicino alla morte, a volte pone una domanda imbarazzante, argomento insolito, un po' ostico. Le parole di Mario, nel giugno, erano queste: " Tra poco mi verrà addosso la morte e ho paura. Secondo te, cosa succede, come sarà ?".
Non c'è stato il tempo di ripensare alle conferenze. Ho sentito che gli volevo molto bene e avevo bisogno che le mie parole gli arrivassero al cuore e lì potessero restare, che non scivolassero via. Gli ho aperto semplicemente il mio animo, ho condiviso con lui come io mi pongo davanti alla morte, gli ho parlato insomma della mia morte (non di come morirò), l'ho fatto partecipe delle risposte (di speranza) che io mi ero già dato ( e continuo a scrutare). Sono queste, mi sembra, la domanda e la risposta che al malato preme porre e ascoltare quando parla o chiede della sua morte imminente...."secondo te,.." cioè, in modo più vero "parlami della tua morte, che poi non è domanda tanto stonata, dal momento che anche tu morirai". Domande e risposte parlate a mezzi toni, attinte adagio dall'ascolto e dal silenzio, modulate secondo il momento e il ritmo del malato, meditate e ascoltate anche da chi le le pronunzia. Discorsi abbozzati, rimasti a volte in sospeso, a volte ripresi, oppure qualche accenno soltanto; ma non è l'esame di ciò che sai, non c'è cattedra tra te e lui, è il conforto di non essere soli nel proprio destino, la speranza di poter andare oltre la paura. Discorsi sempre segnati dall'affetto e dalla misura: sempre dalla riservatezza e dal rispetto dello spazio intimo che si deve a ogni scelta.
( segue)