martedì 28 dicembre 2010

La solitudine del malato terminale (27° di Q. di L.)

Il persistere e l'aggravarsi della malattia inducono un senso di disorientamento esistenziale. Il malato avverte l'urgenza di partecipare agli altri l'incomprensibilità, lo stupore e l'angoscia della sua situazione, prima inimmaginabile, ma subito gli è chiaro che non troverà parole adeguate; smisurato il divario tra ogni possibile espressione e la realtà che vive.

" Il male e tutto quello che ho dentro, non riesco a dirlo". Non può esprimere il suo dolore: non c'è misura, non concetto cui potersi riferire, il dolore è davvero inesprimibile. Questa comunicazione negata può sfociare nel silenzio, nell'isolamento; poi nella solitudine in mancanza di possibili riferimenti che trascendano la situazione presente, ad esempio la fede religiosa.

La solitudine va oltre l'isolamento; estranea ad ogni speranza e indifferente all'amore respinge ogni rapporto; una disperazione mesta, è la scelta di "lasciarsi andare". Spesso il paziente manifesta questo suo stato d'animo nella postura che assume: il volto rivolto alla parete, dà di spalle a chi lo assiste. Un silenzio assillante, il volontario vorrebbe intuire l'esperienza della desolazione che gli sta di fronte. Nella mente del malato forse non vi sono volti né cose, solo un abbandono sconfinato; forse la sua stessa identità confusa in un dolore incomprensibile, disperato.

Talvolta ho tentato di confidargli in modo affettuoso ciò che io stesso provavo nella impossibilità della condivisione. E' il limite che ci accomuna, eppure nella mia esperienza, insuperabile.

lunedì 20 dicembre 2010

Pensieri di Natale

Siamo vicini al Natale, mi piace molto questa riflessione di Barth, è bella e mi piace accostarla all'annuncio degli Angeli ai Pastori.

" Finché era più giovane, l'uomo poteva ancora immaginarsi di essere lui stesso ad andare incontro al suo Signore. L'età deve diventare per lui occasione per scoprire che invece è il Signore che gli viene incontro per assumere il suo destino. "

mercoledì 8 dicembre 2010

Lasciarsi conoscere ( 26° di Q. di Lavoro)

Quando il volontario avvicina il paziente nella fase avanzata della malattia, fa esperienza di una modalità insolita dell'accompagnamento; è lo stadio in cui le forze sono quasi esaurite, la parola affiora a fatica e momenti di lucidità si alternano a spazi di assenza.

Questo particolare stato sollecita ad usare ogni attenzione al limite del possibile, che allevii il dolore e offra la consolazione di una presenza amica, anche se sconosciuta. Ma al di là del "prendersi cura", che già è ascolto, il pensiero che il vero "dramma" del distacco si compie nella solitudine di questo silenzio obbligato, spinge il volontario a desiderare intensamente di poter cogliere una parola, comprenderla per restituirne un'altra nella quiete, che rincuori.

Ricordo di aver scritto che il silenzio "ospita sempre un messaggio e un segreto:ciò che vorresti donare e che incosapevolmente esprimi con tutto te stesso; ciò che del tuo silenzio il malato porterà con sé" (Scelgo il mio silenzio). E' quanto accade ora.

L'ascolto del volontario sembra trovarsi in un vicolo cieco, ma non altrettanto avviene per il malato, o almeno non sempre, e può sfuggire un aspetto importante presente nella sua prospettiva: il bisogno di conoscere chi gli sta accanto, un'urgenza che cresce in rapporto alla gravità dello stato in cui sa di trovarsi. E' persona che non ho mai incontrato prima, perciò il suo sguardo domanda "Chi sei, perché qui?", e lui stesso risponde al mio posto.

C'è una comprensione possibile dell'animo che si esprime nel volto di un uomo anche nel silenzio; di tanto in tanto il malato mi "spia", immobile, in una consapevolezza mai definita. In questo incontro di sguardi, in pochi attimi, si riassume l'amore dell'accompagnamento.

Lasciarsi conoscere significa privilegiare il malato nel rapporto secondo le forze che ancora gli restano. Non si tratta di "rinunciare" all'ascolto, ma in certo senso di accettare qualche istante o pochi minuti di "sospensione"; non di prestare ascolto ma di prestare me stesso, consegnandomi alla sua iniziativa. Quando la via del colloquio è impraticabile, rimane la presenza accanto all'altro nel silenzio: unica a dire di me ciò che io non posso o non saprei dire. Nel silenzio accompagno il malato e ne sopporto lo sguardo, ora fisso, a volte fugace: ora di sfinimento, o inquieto o rassegnato, ora di pace, senza possibilità di replica; lasciarmi conoscere, accettare di essere "visto" come il morente mi vede. Può turbare. E' presenza semplice e affettuosa che spontaneamente vela nel mio sguardo ogni autoaffermazione presente nel comune confronto con l'altro.

"Lasciarsi guardare" non è disimpegno, ma consegna consapevole della propria immagine. E' tutto ciò che posso fare per lui. Questo atteggiamento affina l'ascolto ed è esperienza che mi aiuterà ad incontrare meglio l'altro.

Il cristiano vive nel tempo che passa la sofferenza del momento e la certezza dell'eterno, vive questo accompagnamento nella preghiera semplice, che abbraccia con fiducia il mistero della vita e della morte.