giovedì 25 marzo 2010

Convivere con il tempo (14° di Quaderno di Lavoro)

Il mondo attorno a noi va in fretta. Fitti gli impegni; la produzione, i trasporti, la comunicazione, tutto sempre più rapido e incalzante... una frenesia, ora obbligata ora ambita, ci avvicina a tante cose e ci preclude l'essenziale. Questo ininterrotto rincorrere è assillante, tende a renderci estranei alla vita nella sua profonda dimensione spirituale, condiziona il rapporto con noi stessi e con gli altri.
Forse la domanda appropriata può essere: " A che velocità viviamo ?". Una frase ad effetto che mi pare ritrarre compiutamente lo spaesamento del fare e dell'essere nell'uomo di oggi. L'ho ascoltata da un compositore poco più che trentenne mentre raccontava di sé, paralizzato dal bacino in giù a causa di un incidente: la sua compagna perduta, l'importanza per lui della musica, "l'inferno del suo stato". "A che velocità viviamo ?", quale il significato della vita, come conoscerci dentro, noi stessi, gli altri?
Per il malato a volte il tempo sembra fermo, brevi gli anni e i mesi alle spalle, le settimane lente, la notte, i minuti infiniti; oppure accade che viva l'esperienza opposta, il precipitare del tempo e degli eventi, si accavallano timori, emozioni violente.
Ma qualunque sia la sua situazione, il malato con la sua stessa presenza si impone al mio modo di vivere, la sua stessa precarietà è autorevole e sembra dirmi " Fermati, ascoltati! ". Certo, "Ascoltati", se non so ascoltarmi come posso ascoltare gli altri? Accanto al letto del mio malato il tempo riacquista il suo naturale scandire, il ritmo si fa a misura d'uomo e modula lo stile dell'approccio e della conversazione. Ho bisogno di vivere il tempo nel suo battito immutabile, mentre tutto cambia e si compie.
Durante l'ascolto, il colloquio o il silenzio, mi accorgo che il malato modifica la mia vita, perché sostare non è tempo perso, è piuttosto occasione di ripensamento, comprensione più approfondita, scelta; è maturità. L'accompagnamento mi cambia e nasce in me la riconoscenza verso il malato.
Non è l'elogio della lentezza, è lo stupore di fronte alla nostra vita travolta in una corsa innaturale, che isola, e a volte rende assenti dalle realtà più vere e più belle.

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