sabato 8 gennaio 2011

La solitudine del morente ( 28° di Q. di L.)

Da tempo ho scritto la riflessione "Lasciarsi conoscere", una pagina che sin da allora sentivo incompleta. La rileggo e la riprendo nella speranza di saper esprimere ciò che di importante per me non avevo saputo dire. Importante per la prospettiva spirituale in cui, da volontario ,vivo l'accompagnamento concretamente fino al suo esito.

La solitudine obbligata del morente svela la povertà costitutiva dell'uomo, una solitudine che si proietta nell'oltre, sconosciuta e inquietante. Il volontario cammina col malato sino al limite della vita che si spegne: oltre la soglia il malato è solo. Anche la presenza di parenti e amici non può nulla: nell'attimo designato, sempre incerto, il suo corpo muta da persona a cosa, così l'uomo oltrepassa la morte solo con sé stesso.

Questa fondamentale esperienza della vita esige un senso che ciascuno di noi vi legge dentro, secondo le sue più profonde convinzioni. La prospettiva della fede cristiana non sovverte l'evidenza, che resta umanamente incomprensibile e sconvolgente, ma la pone nella luce misteriosa della resurrezione di Gesù Cristo.

Le sofferenze del malato e la pena condivisa dal volontario sono "consolate" dalla certezza che la morte non chiude la vita e che nell'intimità del suo spirito nessuno è solo nell'ora del distacco.

Anche il cristiano è spettatore della solitudine del morente, ma crede che la vita non viene meno e si trasfigura.


Giov. (2,29-3,6) "Ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è".

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