giovedì 29 gennaio 2009

Due parole sulla canzone di De André



Questa canzone trasmette l'ansia vissuta da Piero, una questione di attimi, pochi per decidere, e Piero non spara o forse un solo colpo. Il nemico é uno come lui, lo distingue la divisa, soltanto qualcosa di esterno. Anche per lui una questione di attimi.

Bellissima tutta la canzone, le immagini, l'immediatezza, il ritmo, la voce. Ogni brano é da ripensare, come ad esempio la singolarità della rosa e del tulipano che svaniscono nella immensità del rosso abbagliante di "mille papaveri", oppure come il sogno e lo slancio e il sorriso della vita nella lucentezza, nel guizzo dei "lucci argentati" cui si contrappone improvvisa e terribile l'immagine della guerra, i "cadaveri dei soldati". L'autore li riveste di dignità e onore, non trascinati non sospinti in modo scomposto dalla corrente, "portati in braccio".

Una continua metafora della vita e della morte, dell'amore e dell'odio che permette come sempre interpretazioni personali. Una composizione dal valore poetico e artistico, descrive temi essenziali proponendoli nell'attualità con potenza incisiva.

Non possiedo una preparazione sufficiente ad affrontarne la critica, tuttavia penso che sarebbe interessante conoscere le differenti interpretazioni che altri possono dare, per scoprire nuovi significati, per gustare più a fondo questa "piccola" opera d'arte.

De André racconta in modo franco, quasi con rabbia il coinvolgimento "obbligato", i condizionamenti, l'aggressività della paura e della morte, una storia tra due soldati: uno lo conosco, ha nome Piero, l'altro rimane sconosciuto, é "in fondo alla valle" nella medesima situazione, diversa soltanto la divisa.

Dunque si parla di fatti immaginati ma concreti con parole coraggiose, con una franchezza che non ho mai avuto occasione di incontrare nelle persone che mi hanno raccontato la loro storia di guerra, della guerra vera combattuta in Africa, in Grecia, in Russia, in Italia, fascista o partigiano...situazioni incredibili, differenti anche secondo la latitudine, paurose..ma nessuno che abbia trovato il coraggio di dirmi "..io ho ucciso".

Una eccezione però é dovuta. Ho conosciuto un ragioniere, dirigente nel settore assicurativo dell'ufficio assunzione rischi industriali, persona che ho sempre stimato, accogliente, affabile, capace ed essenziale nel tratto e nella professione. Ha "fatto la Russia". Muto su questo, impenetrabile, mai pronunciato parola, non un cenno, un lamento,un'allusione, con nessuno. Un silenzio non ostentato, anzi custodito, dignitoso e forte.

Ti guardo e sento affetto per te, e ti ringrazio. Caro amico anch'io non conoscerò "mai" la tua storia di alpino, ma la considerazione che ho di te mi fa pensare che porti nel cuore il peso della tragedia di un popolo che fin da allora non voleva la guerra. Nel tuo silenzio ci sono anch'io, forse siamo molti, anche noi in silenzio, estranei eppure presenti fra quei ricordi che solo tu conosci, insieme perché tutto questo appartiene anche a noi. Poi l'età avanzata aggiunge cose nuove, nuovi modi di sentire e di vivere: il perdono e la speranza.

Rileggo e mi accorgo che non mi hai detto se hai ucciso, forse a nessuno é facile dirlo, ma ora la domanda ha perso interesse. Il tuo silenzio mi ha detto di più.

1 commento:

  1. mi piace molto il tuo non aver chiesto nulla al tuo amico. La morte fra voi non ha avuto alcun potere, e non hai consentito al male di separare il tuo ascolto da lui. credo sia l'unico modo che abbiamo: stare con il silenzio dell'alpino, senza chiedergli il finale della storia. Stare con il suo silenzio qualunque sia la verità che cela. molto bello. giovanni.

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