domenica 21 ottobre 2012

Dall'assistenza domiciliare all'Hospice (60° di Q. di L.)

  
                                         ( Schema di un percorso interiore )



       Inizio manifestando la mia gratitudine a colleghe e colleghi del Trivulzio e a Lucia Floridia (nostra consulente psicologa) per la cordialità con cui mi hanno accolto e l'aiuto che mi hanno prestato nelle difficoltà personali incontrate.

       Il mio primo impatto con la vita dell'Hospice è disorientante, mi da un senso di spaesamento, di estraneità all'ambiente, non intravedo possibilità di instaurare una relazione col malato. Mi trovo inserito in una attività di gruppo, abituato da sempre, anche nella vita professionale, a iniziative e decisioni autonome.

       L'appartenenza al volontariato domiciliare predispone a un determinato stile di relazione con il malato e la famiglia, non ripetibile nell'ambito dell'Hospice ( informazione preventiva della patologia, conoscenza del caso nel suo aspetto familiare, economico, culturale...relazione di volontario unico e unico referente per l'intero periodo della malattia) . Il disagio psicologico, le nuove modalità operative, i tempi obbligati e ristretti di permanenza degli ospiti (e dalla relazione), mi spingono a confrontare l'esperienza maturata con la novità di un mondo che non conosco, dunque alla verifica della mia eventuale partecipazione a questo tipo di volontariato e alla ricerca di senso.

       La riflessione mi chiarisce presto che è indispensabile raggiungere innanzi tutto una posizione interiore di maggior libertà, operare un netto distacco psicologico e affettivo dalle modalità di approccio e di accompagnamento a me familiari, e in generale dagli schemi mentali assunti negli anni precedenti. Col tempo affiora qualche chiarificazione.

       Dopo oltre 12 anni di "domiciliare" è necessaria l'umiltà di fare silenzio in me stesso su ciò che ho appreso, accantonare non cancellare, rinunciare liberamente a una mentalità acquisita e collaudata, per conoscerne una nuova, quella che vedo attuata dai colleghi, anche se ancora non riesco a possederla nel suo valore intimo.

       "Arroccato" nella mia storia di volontario e nel mio modo personale di pensare il rapporto col malato, raggiungo l'obiettività dell'evidenza soltanto a posteriori.

       Il volontario domiciliare configura la propria attività nell'accompagnamento "totale" , nel senso che questo si protrae dal primo incontro lungo tutto il percorso della malattia sino alla fine. In Hospice il volontario inizia il rapporto con l'uomo già prossimo all'estrema conclusione della vita, nessun retroterra di conoscenza, di familiarità con l'ospite malato, il quale non può che presentarsi in Hospice come ospite sconosciuto, seguendo la trafila burocratica del ricovero.

       Da tutto ciò discende lo stile proprio dell'Hospice nell'accompagnamento del malato e dei familiari. Dunque una mentalità, una capacità di accoglienza, un'apertura psicologica, una spiritualità nuove.

       Potrei parlare del "rito" del the, del servizio ai pasti, di un colloquio o semplicemente di un cenno di saluto, di un sorriso..ma mi pare che tutto già si trovi nelle poche parole che ho scritto.

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